giovedì 10 maggio 2007

Dossier: "Una città che cambia"


Dalle parole di Ermenegildo Bugni, partigiano e membro del Comitato Provinciale dell'ANPI di Bologna, autore dell'autobiografia "Arno nella Resistenza", ho appreso (la sera della presentazione del suo libro organizzata dal Circolo ARCI Sputnik Tom in collaborazione con la sezione ANPI di Castel Maggiore, sera nella quale la brava Chiara Bedeschi ha letto alcuni passaggi del libro) com'era la Bologna della fine degli anni '30, subito dopo l'invasione dell'Etiopia da parte di Mussolini. Dalle parole dei miei genitori ho appreso com'era Bologna tra la fine degli anni '60 e gli anni '70, epoca in cui loro erano studenti all'università. La stessa Bologna che ho vissuto negli anni '80, durante la mia infanzia, ora, a distanza di vent'anni appare già molto diversa. Ho riflettuto quindi sui cambiamenti avvenuti a Bologna nell'arco degli ultimi 70 anni, e sono giunto alla conclusione che la città si dovrebbe liberare di quei cliché ormai stantii, perché legati ormai ad una Bologna che non è più. A questo proposito ho raccolto un po' di materiale prodotto da bolognesi (di adozione e non) per spiegare meglio la questione attraverso le loro parole.



Inizio con Francesco Guccini, il quale scrive:


“Ogni città si porta dietro uno sciagurato retaggio di canzoni encomiastiche, false come le cartoline con le tre T (che per Bologna sarebbero Torri, Tortellini e Tette). Amo Bologna, anche se adesso l’amore è meno entusiastico di un tempo, ma mi ha dato molto, e penso non vivrei in nessun’altra città (parlo di città, per paesi il discorso sarebbe diverso). Volevo fare una canzone che la raccontasse così come la vedo e la vivo, al di là dei cliché celebrativi. Un noto giornalista bolognese ha scritto che, nel corso di una trasmissione su Bologna, la mia canzone era forse la cosa più vera ed azzeccata. Devo dire che il complimento è stato una buona giustificazione per averla scritta”.


Segue il testo della canzone "Bologna" (la canzone fa parte dell’album del 1981 intitolato “Metropolis”; testo e commento dello stesso Guccini sono stati estrapolati dal libro “Stagioni”, raccolta di tutti i testi delle canzoni di Francesco Guccini, pubblicato nel 2000 dalla casa ed. Einaudi)



Bologna

Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po’ molli
Col seno sul piano padano ed il culo sui colli.
Bologna arrogante e papale, Bologna la rossa e fetale
Bologna la grassa e l’umana, già un poco Romagna e in odor
di Toscana.
Bologna per me provinciale Parigi minore
Mercati all’aperto, bistrots, della rive gauche l’odore
Con Sartre che pontificava, Baudelaire fra l’assenzio
cantava
ed io, modenese volgare, a sudarmi un amore, fosse pure
ancillare.
Però che bohème confortevole, giocata fra casa e osterie
Quando a ogni bicchiere rimbalzano le filosofie.
Oh, quanto eravamo poetici, ma senza pudore o paura
E i vecchi imbariaghi sembravano la letteratura.
Oh, quanto eravam tutti artistici, ma senza pudore
o vergogna
cullati fra i portici-cosce di mamma Bologna.
Bologna è una donna emiliana di zigomo forte
Bologna capace d’amore, capace di morte
Che sa quel che conta e che vale, che sa dov’è il sugo
del sale
che calcola il giusto la vita, e che sa stare in piedi
per quanto colpita.
Bologna è una ricca signora che fu contadina
Benessere, ville, gioielli e salami in vetrina
Che sa che l’odor di miseria da mandare giù è cosa seria
E vuole sentirsi sicura con quello che ha addosso,
perché sa la paura.
Lo sprechi il tuo odor di benessere però con lo strano
binomio
dei morti per sogni davanti al tuo Santo Petronio
e i tuoi bolognesi, se esistono, ci sono od ormai si son persi
confusi e legati a migliaia di mondi diversi.
Ma quante parole ti cantano, cullando i cliché della gente
Cantando canzoni che è come cantare di niente.
Bologna è una strana signora, volgare e matrona
Bologna bambina per bene, Bologna busona
Bologna ombelico di tutto, mi spingi a un singhiozzo
e ad un rutto
rimorso per quel che m’hai dato, che è quasi ricordo,

e in odor di passato.



Concludo riportando un passo dal libro “…benéssum ! – alla ricerca dello stupore perduto errando fra dialetto e gergo a Bologna e dintorni”, di Andrea Mingardi, 1999 Press Club Editore, cap. 4, “La bolognesità”:


[…] Siamo di Bologna, ordunque, e appare palese che ci piacciano la tavola e il sesso. Non contemporaneamente. A volte li mescoliamo. Non saremo né i primi né gli ultimi a farlo. Ma la fama delle nostre donne, immeritata, secondo “io”, quasi sempre “secondo”, ha varcato i confini, non solo della nostra regione, ma dell’Italia stessa.
Mi sono interessato, ahimé invano, di scoprire da dove provengano le leggende che fanno dell’universo femminile petroniano un territorio speciale dai connotati intrisi di sensualità.
La raffigurazione dell’amore a pagamento vede da sempre, come protagoniste, attrici con cadenze parlate familiari, che invitano il cliente ad entrare in paradisi perduti e proibiti.
Al di là del fatto che la federazione delle peripatetiche nostrane, ammesso che esista, dovrebbe far causa a tutto il mondo, in quanto, ragazze provenienti da ovunque, hanno distrutto in un attimo la storica esclusiva, non mi sembra, avendo girato il globo terracqueo, che le finlandesi scherzino, o che le siciliane non conoscano i sentieri del “piaciuere”.

Andando a un tanto al chilo, per induzione, così come si fa per le tasse, mi sono fatto un’idea che frantuma un mito immeritato e comunque non so neanche se tanto gradito.
Nel 1999 le donne e gli uomini, più o meno, sono uguali dappertutto.
I giovani di Enna sono vestiti come quelli di Zurigo e le percentuali di pregiudizio e di libertà sessuale non sottraggono ai praticanti, o osservanti, nulla che altri, ovunque e comunque, facciano.
Immodestamente ho avuto, a Rimini, un po’ di tempo fa, una splendida storia d’amore quindicinale con una ragazza lappone, capelli corvini, occhi viola: spervèrscia.
Non sto caricando, ve lo assicuro.
Posso dirlo liberamente in quanto il reato è già caduto in prescrizione.
Gli altiforni dell’Italsider erano dei “kof” al confronto con la predisposizione della suddetta a produrre sensualità. Un acrobata di metallo fuso con una libertà mentale e fisica che le nostre ragazze disinibite di allora avrebbero dovuto sfogliare come libro di testo. Un putiféri!
L’ultima riga in proposito, scusate.
Mi ha preso un attacco di “rimembering” : alta, pelle olivastra, e, povero me, una dea semovente che fermava il traffico. Da sparères!
Quando è partita, per un anno ho fatto l’eremita studiando le evoluzioni dei burdigoni dal pattume al giardino.
“Tornando a bomba” però, il mestiere più antico del mondo era praticato da professioniste che, in qualche modo, dovevano vendere la loro merce accaparrandosi i clienti, adescando e proponendosi.
Quindi mi immagino la storia di qualche anno fa, non solo nelle case chiuse, ma anche “on the road”.
C’era, di sicuro, meno offerta di oggi, mentre da parte degli acquirenti, vigeva un grande timore e un forte freno inibitorio moralistico.
Le tradizioni sessuali italiane facevano sì che alcune regioni avessero una maggiore densità di “ragazze perdute” rispetto ad altre.
Questo già disegnava la cartina dell’amore a pagamento. Uno di questi territori era sicuramente l’Emilia, più libera, anche culturalmente, di altre, dove le “navi scuola” svezzavano migliaia di maschietti impauriti, in un rito di iniziazione che non era, a volte, privo di tenerezze e che sarebbe stato determinante (lo dicono gli psicologi) per l’equilibrio sessuale dell’alunno.
Diciamocelo, nel dopoguerra è stata dura per tutti. Vent’anni dopo… uguale.
Si faceva un bel gioco a centro campo, ma a rete ci andavano in pochi. Tutti i pregiudizi erano presenti anche da noi.
Le ragazze facili, le ragazze madri, venivano etichettate e marchiate dal cattivo gusto degli sbandieratori maschi e la verginità è stata anche qui una “conditio” per un sacco di tempo.
Ma le prosti, diventate fortemente visibili soprattutto dopo la chiusura delle “case”, da noi lo erano anche prima, e questa vetrina era sicuramente un manifesto pubblicitario pregnante per gli innumerevoli “stranieri” che si trovavano, o per lavoro o per turismo, nella città dove certe barriere non esistevano.
Anche su questo argomento potremmo, se volessimo, aprire dei dibattiti per sviscerare il grado presunto di liberazione e di disinibizione sessuale, ma non lo faremo perché… non ci pagano per farlo, e poi a noi interessano elementi di analisi diversi. Perché è l’immagine in superficie che determina poi il mito di “sesso-Bologna”, così rozzo e dozzinale.
Un’annotazione curiosa, per me almeno, è che io, ragazzino, con le prime pulsioni, tornando a casa sui viali, le vedevo.
Erano brutte, grasse, vecchie. Per la mia età, sicuro.
Ma mi sembravano decrepite, con quei boa di finto struzzo e il rossetto al di là dei confini delle labbra; come se avessero bevuto, scomposte, da un barattolo di colore. Eppure quelli molto più grandi di me ne magnificavano le capacità, raccontandomi che qualcuna era anche in possesso di un vago tono materno.
Ti davano del tu affettuosamente ti mettevano a tuo agio. Almeno così mi dicevano. La prima volta, per noi timidi, è stato come andare sulla luna e alcuni hanno conservato un sentimento di gratitudine per aver superato, grazie a loro, una prova così ardua.
Una prova paventata nei discorsi da bar e a scuola; ed anche, sotto il profilo descrittivo, geometricamente confusa, atleticamente piuttosto complicata e misteriosa.
Con queste preoccupazioni di tirare rigori al novantesimo, alcuni facevano cilecca […]. Con pazienza la nave scuola minimizzava, diceva che succedeva a tutti, dava il tempo, ti riportava in quota e dopo un assist, andavi in goal.
Tutto molto diverso rispetto alla miriade di ragazze straniere con la pistola alla tempia che vengono “comperate”, usate e gettate come “kleenex” da una “civiltà” che non ha più paura di “non fargliela” ma che vuole, attraverso il sesso, esercitare una voglia di potere sadico e colonialista.
Il mercato tira e gli assassini, venditori e compratori, sguazzano.
Sono più belle quelle di oggi, ma non sono umane.
Sono “cyber” nelle mani del consumo. Ebbene si!
Nobilito, si fa per dire, “il mestiere più antico”, quando era antico.
Brutte, vecchie, sfatte, ciccione, ma forse in un caso su mille, utili e soprattutto umanamente consapevoli.
E allora, stabilito che, in materia, l’Emilia e Bologna erano sicuramente in “pole-position”, secondo voi, nell’approccio era più forte una bolognese o un umbra?
Una con la parlata e la capacità comunicativo-commerciale di una petroniana o una toscana? Non c’è gara.
Da lì nasce che ogni proposta di rimescolo prezzolato ha la voce gnagnosa, suadente, strascicata, godereccia di una bolognese.
Nel cinema, in TV, in teatro, e di conseguenza nella mente di chi scrive, questi erano i dialoghi preparati dagli autori:
“Mo vieni qua bel bambino che ti porto in paradiso”.
“Mo vieni bén dalla Ines che ti fa dei bei giochini!”.

“Giochini”non praticati dalla media delle coetanee. Se fosse stato per le “nostre donne”, i “viril pelosi questuanti”, potevano morire. Altro che paradiso sessuale! Siamo cresciuti, autodidatti, tra le nebbie di un’informazione casuale, con l’aggravante di sentirci continuamente dire dagli altri:
“Beati voi, le bolognesi che forza!”.
Le bolognesi ‘sti due! […]: ipocrite, perbeniste e sprovvedute come le altre. Vittime, certo, a volte non consapevoli, di un clima di puritanesimo fasullo. Altro che “Eden”, che “Nirvana”, un’adolescenza con il freno a mano tirato, esattamente uguale a quella di altre mille città, di altri mille ragazzi. Ho aspettato una vita a sfogarmi, e ora mi vendico, confutando quelle abilità supposte, tanto propagandate, della F.F.F. (fauna femminile felsinea), inesistenti ed esclusive. Le povere ragazze, purtroppo per noi bellissime (e in questo gli stampi erano ormai volti verso florilegi di splendide creature, così da gravare ancora di più, se possibile, sulla cifra di un nostro desiderio insopportabile), non sapevano dove mettere le mani. Sexi? Al pèr un uscio!
Chi ci ha provato con la porta di casa sa cosa vuol dire.
Vivevamo di fama e crediti usurpati, leggende create da chiacchiericci da trivio, ma non assolutamente riscontrabili in capacità né fisioterapiche né psicologiche. Noi e loro. Noi arrapati e forse anche loro, ma inchiodate da un’ignoranza assoluta in materia, alla ricerca di un qualcosa che solo dopo prove e riprove diventava una roba accettabile.
Ma proprio per questo buio culturale abbiamo vissuto un’era irripetibile, piena di stupori, di paure, di drammi, di gioie indescrivibili, di trasgressioni sul ciglio dei burroni.
Incontri rischiosi, sui cornicioni, nelle auto, al cinema, rubati e privi di qualsiasi cenno di sintassi.
Altro che “precauzioni”! L’unica cosa che indossavamo era un profondo senso di colpa. In attesa di punizioni universali, eravamo i clandestini del pianeta “amore”. Per orgoglio, mai abbiamo controbattuto il lucano che, guardandoci con invidia ci diceva:
“Voi sì che avete delle donne libere, chissà che cosa fate?”
“Niente, non facciamo niente, e le nostre donne sono delle mistocche deliziose e impacciate come noi!”.
Sfogarci così sarebbe stata una liberazione. Abbiamo tenuto su le carte e questa cosa si chiama “millantato credito” o “falso storico”. Del busì!
Ammesso che voi femmine abbiate cavalcato subdolamente e con un minimo di soddisfazione questa immagine usurpata, ricordatevi: lo dovete a noi maschietti. Siamo in credito! “Avanzàn quèl, ma fórsi l’è un póc tèrd. Csa dit tè?”.
Dal sesso al cibo il passo è breve.
Grandi esempi cinematografici.
Tony Richardson in “Tom Jones” è uno di quelli che storicamente hanno accorciato, se possibile, lo spazio che separa la gioia del far l’amore da quella della tavola. Mitica è la scena in cui lei e lui, mangiando con le mani, si mangiano anche con gli occhi.
Ci sono diverse scuole di pensiero sulla scansione dei tempi.
Alcuni sostengono che cibarsi dello sguardo sia già un preliminare di per se stesso.
Altri magnificano la qualità dell’appetito che ti viene dopo l’amore, stato di grazia mentale e fisico, per assaporare i cibi con la pace dei sensi..
“Amor mio, c’ho na sghissa!”:
“Na fam da bistia!”.
Fatto sta che siamo rinomati anche nell’arte culinaria. Sorge spontanea la domanda. Ma quando tutti magnificano la nostra cucina, lo fanno perché si apprezza di più ciò che non si ha o perché le differenze esistono davvero!?
Come si fa a dire: in Piemonte non si mangia bene, o in Toscana non ci sono idee all’altezza?!
Che in Sicilia è così così e che in Veneto, insomma?!
Al di là delle tradizioni e delle abitudini del palato, in Italia si sta alla grande ovunque, se si va nel posto giusto.

Ma noi abbiamo comunque la fama dei “goderecci”, di coloro che vivono a tavola, facendone un appuntamento imprescindibile nell’arco della giornata.Ci vedono tutti unti, sporchi di ragù, con il colesterolo in orbita, però magnificano le doti dei nostri piatti tradizionali come fossero statue, monumenti o palazzi antichi.
Le tagliatelle! (le hai fatte col mattarello o sono compere?, acquistate in negozio e fatte a macchina).
Silenzio ci sono i “tortellini”. Rispetto per i “passatelli”. Onore al “cotechino”. Omaggi ai “tortelloni”.
La beatitudine cromatica delle lasagne verdi, con linee morbide, che si piegano in crostine rosolate popolate da mandrie di ciccioli di ragù.
Fiumi di “balsamella” (i puristi la ripudiano) separano gli strati del godimento, tagliati volutamente male per dare quel senso di “fatto in casa”, da “artigiano del piacere”.
Il dispregiativo funziona, non solo nella denominazione delle portate, i “tortellacci” e i “maltagliati”, ma anche soprattutto nei nomi delle trattorie.
“Il Tavolaccio” e la “Chiesaccia” invitano il passante a fidarsi di una cucina fai da te e di prezzi “trattoriferi”.
Quando il ristorante ha il santo davanti al nome (San Domenico, Convento San Vincenzo) prepararsi al salasso.
Invece più il nome è sgangherato, “Al fienile”, “La trattoriazza di Gigi”, più ci sono garanzie, teoriche, di trovarsi di fronte a gestioni rustiche con pochi passaggi chimici ed economici tra la fetta di mortadella e il consumatore.
Questa proposta ruffiana nulla toglie all’effettiva qualità media del cibo e all’atmosfera che lo circonda. Premesso che ovunque si può trovare una cucina “sfiziosa”, è inconfutabile che, per esempio, in molte città italiane, si mangia in piedi o ci si impanina per questioni di tempo. La cosa qui non attecchisce.
Il rito della tavola e del parlarne è uno dei piaceri inalienabili del popolo petroniano. Tutto sembra ricondursi al discorso sulla qualità dei rapporti. Se siamo esploratori alla ricerca della purezza, essa si nasconde ovunque, tra arie rarefatte, profondità inesplorate o pappardelle al ragù.
“Volersi bene” è sinonimo di grande civiltà. Se guardiamo alla media popolare, alla quale poi tutti, anche per questioni di tempo, siamo costretti a fare riferimento, entrando alla ventura in un ristorante qualsiasi di camionisti o in una bettola colonica, ci troviamo ancora quei famosi paletti che sostengono la pur logora, stantia, retorica leggenda bolognese. Si mangia e si sta bene. As magna pulidén!
Tutto si configura in un rito naturale che si celebra nel piacere reciproco di dare e ricevere un piccolo applauso.

Bologna la rossa, al di là della sua bonomia, dello scetticismo ironico, dell’epicureismo esistenziale, sta vivendo forti contraddizioni.
Forse avrei dovuto dire Bologna la rosa.
Tutto si sta attenuando, assomigliandosi sempre di più. Qualcosa di volutamente moderato produce una poltiglia intellettuale.
I tempi del dopo guerra, del “sessantotto”, del “settantasette”, della caduta dei muri, appaiono lontani.E gli “uomini contro”, che provocavano energia culturale, sono diventati più anziani e “uomini forse”.
Quindi, anche le prerogative più viscerali, sbandierate come vessilli per decenni su un manifesto da sagra, hanno perso i loro eccessi e parte di quella fede “zuccona”, ma appassionata.
La gente mangia meno e vive di più.
Si fa meno l’amore, un po’ per paura (non è igienico leggere la musica a prima vista, ora ci vuole maggior attenzione) e un po’ per egoismo. Si fanno pochi bambini e non ci si rimette in discussione.
Quando hai fatto sessantuno, stai coi vinti.
Il rischio non abita qui.
La fede in qualcosa: le cooperative, il comunismo democratico, il Marxismo utopico, paiono un riccio addormentato senza le spine.
C’è chi va in chiesa perché non si sa mai, “S’ai è Dio, a stag da la pèrt di btón!”, dalla parte dei bottoni. Nel sicuro.
La città ha aperto le sue braccia agli stranieri e adesso le vorrebbe chiudere. I han del ghignòti!!?
La destra non è più fascista, la sinistra non è più comunista, il centro non è più democristiano, né socialista, né liberale, né repubblicano.
“Tra irpef, ilor, iciap, ici, cct, btp, an s’capéss pió un azidànt!”.
Il bolognese non è più bolognese come prima.
Ohi, intendiamoci, vedo più sazî che disperati, ma capisco la “boutade” provocatoria del Cardinale, perché il benessere e la bonaccia psicologica-politica non aiutano il muscolo dell’esploratore a rinforzarsi […]

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