mercoledì 30 maggio 2007

Muddy Waters



Il cerchio si chiude: se non ci fosse stato Son House non ci sarebbe mai stato Robert Johnson, se non ci fosse stato Robert Johnson non ci sarebbe mai stato Muddy Waters.

Muddy Waters, nato il 4 aprile 1915 a Rolling Fork, Mississippi, si chiamava in realtà McKinley Morganfield; il soprannome gli fu dato dalla nonna che lo vedeva sguazzare nelle acque stagnanti nei pressi della casa del padre. Per il suo settimo compleanno gli fu regalata un' armonica che imparò ben presto a suonare e a 17 anni comprò la sua prima chitarra. Dopo aver girovagato per un po' fu scoperto nel 1941 da Alan Lomax, il ricercatore che viaggiava attraverso il sud degli Stati Uniti per trovare musicisti a cui fare incidere la musica nera e tradizionale. Lomax era alla ricerca di Robert Johnson, che però nel frattempo era morto, e di Elmore James, che non era rintracciabile. Qualcuno indicò loro Waters che, si diceva, aveva uno stile simile. La carriera musicale di Muddy Waters, iniziata con il disco " I can't be satisfied ", è durata 40 anni. Ebbe anche momenti meno felici. I Rolling Stones, che presero il nome da una canzone di Waters, si recarono per la prima volta in America nel 1964 per registrare parte di uno dei loro LP negli studi della Chess. Quando entrarono trovarono Muddy che stava dipingendo il soffitto, in quel periodo non stava vendendo dischi e quello era il modo con cui si manteneva. Racconta Keith Richards: " Waters si avvicinò per stringermi la mano, "Piacere di conoscerla" mi disse, ma i suoi occhi dicevano: "Domani potresti essere tu a dipingere il soffitto", questo è lo show business. Ragazzi, quell' uomo era il mio idolo, quella gente aveva in casa uno dei più grandi interpreti di blues e non se ne rendeva conto!". Negli ultimi anni Muddy Waters si ammala di cancro e si spegne nel sonno il 30 aprile 1983; sulla sua tomba sono incise una chitarra e la scritta: "The mojo is gone, the Master has won."

martedì 29 maggio 2007

Robert Johnson



Poche sono le notizie attendibili sulla sua vita. Sappiamo che dopo un periodo trascorso a Memphis si sposa con Virginia Travis, ma la moglie, sedicenne, muore mettendo alla luce il primo figlio, dopodiché Johnson comincia a vagare fra le città del Delta del Mississippi, divenendo un donnaiolo ed un forte bevitore. Narra la leggenda che Robert Johnson avesse stretto un patto col Diavolo per suonare la chitarra. Ciò nasce dal fatto che i vari musicisti che avevano conosciuto Robert, e che sapevano che non era bravo con la chitarra, si stupirono quando lui riapparve sulla scena, dopo la morte della moglie, e dopo un solo anno di tempo dal suo ultimo concerto si presentasse con una bravura eccezionale allo strumento, dato che prima suonava solo l'armonica. Ma in realtà si pensa che in quel lasso di tempo Johnson abbia preso lezioni da Ike Zinneman e da Son House, altre leggende del blues. Il 16 agosto 1938, a soli 27 anni, Robert Johnson muore a Greenwood, nel suo Mississippi. Le testimonianze di Sonny Boy Williamson II e Honeyboy Edwards attestano che la notte del 13 Agosto 1938 Robert Johnson si trovava suonare a Three Forks, 15 miglia da Greenwood. Era opinione diffusa che avesse una storia con la moglie del padrone del locale, il quale sapeva di queste voci, ma continuava a contrattarlo lo stesso. Racconta Sonny Boy che durante la serata, complici l’alcol e l’atmosfera di grande eccitazione (un concerto di Robert Johnson e Sonny Boy Williamson II…), la faccenda era persino imbarazzante per quanto era chiara. Altrettanto chiara era la rabbia dipinta sul volto del barman. Quando arrivò sul palco mezza pinta di whiskey Sonny Boy la strappò di mano a Robert, avvertendolo che non era prudente bere da una bottiglia aperta ma Robert si infuriò e la bevve ugualmente. Robert già si sentiva male quando arrivò Honeyboy Edwards, e presto non fu in grado di suonare. Fu accompagnato a casa di un amico, dove morì il martedì successivo. Malgrado Robert abbia suonato per gran parte della sua vita, sono solo 29 le canzoni incise su disco. Un certo H.C. Speirs, negoziante di dischi di Jackson, lo presentò infatti ad Ernie Oertle, un famoso scopritore di talenti; quest'ultimo organizzò per Johnson alcune sedute di registrazione in un hotel (anche sul nome dell'hotel ci sono storie contrastanti). In soli cinque giorni venne composto gran parte del materiale e fra il novembre del '36 ed il giugno del '37 vennero incise le canzoni che rappresentano l'intera discografia Robert Johnson.

"I went down to the crossroads and fell down on my knees, asked the Lord up above for mercy, save poor Bob if you please."

--Cross Road Blues, Robert Johnson

"You may bury my body down by the highway side so my old evil spirit can get a Greyhound bus and ride."

--Me And The Devil Blues, Robert Johnson

"If you want to learn to play anything you want to play and learn how to make songs yourself, you take your guitar and you go to where a crossroads is. A big black man will walk up there at the stroke of midnight and take your guitar, and he'll tune it..."

--LeDell Johnson (nessun legame di parentela conosciuto con Robert)

lunedì 28 maggio 2007

Son House


Son House nacque il 21 marzo del 1902 a Riverton, nel Mississippi da Eddie James House Jr. La sua famiglia, molto religiosa traslocò di frequente durante la sua infanzia; nel periodo della sua adolescenza House frequentò diverse chiese battiste della zona. A quanto si racconta, in un primo tempo egli non si interessò al suono della chitarra e considerava il blues "musica del diavolo". Una notte tuttavia, durante un party House si lanciò in un estemporaneo blues senza accompagnamento. Il giovane venticinquenne fu letteralmente sommerso di mance per la sua imprevista esibizione, e improvvisamente mostrò interesse per il blues. Così fu uno dei primi professionisti dello stile blues Mississippi Delta e suonava questa meraviglia in giro per il sud durante gli anni '20. Successivamente sparì dalla circolazione, abbandonando il mondo del blues, abbandonando la chitarra, e si mise a lavorare come ferroviere sino più o meno alla metà degli anni '60 quando, pochi anni prima di morire, grazie ad Al Wilson , leader dei Canned Heat e all'organizzatore del Newport Music Festival, sull'onda della riscoperta della musica folk o acustica tradizionale americana, fu portato su un palco a suonare e reso celebre. Fece anche in tempo, prima di lasciarci, ad incidere un album memorabile, che io vi invito ad ascoltare: "The Original Delta Blues", semplicemente ipnotico.

Intenso, emotivo, di spessore artistico ineguagliato, Son House sopravvisse ai bluesman della sua epoca, alla grande depressione economica, agli sceriffi, a Parchman Farm (famoso penitenziario dove fu rinchiuso per aver sparato ad un uomo). Sopravvisse ad un periodo pericoloso ed ostile, alla sua terra contaminata di odori tra il sacro e il profano, al diavolo e all'acqua santa. Sopravvisse al suo stile di vita randagia e girovaga, tra pic nic campagnoli, bar diroccati e bettole di quart'ordine frequentate da puttane, ladri, balordi, ubriachi, evasi. Son House ha ispirato gente come Robert Johnson e Muddy Waters, ha lasciato testimonianze di personaggi che altrimenti non avremmo mai conosciuto. Il suo canto stilisticamente è impressionante: rauco, denso, passionale, scuro, screziato da falsetti inimitabili. La tecnica chitarristica è puro Delta: timbro metallico, slide e gioco propulsivo dei bassi. Le sue performance erano trascinanti e di grande intensità, mostrando la totale immedesimazione fisica in ciò che cantava (ne avete una prova nel documentario di Martin Scorses sul blues "Dal Mali al Mississippi"). Ha la forza di trascinarti nel mondo drammatico e dolente dei suoi blues; soffriva e piangeva sul palco, i suoi piedi scandivano il tempo.

La figura di Son House mi ricorda moltissimo il protagonista di un romanzo di Walter Mosley, "La musica del diavolo", dove appunto c'è questo personaggio che aveva suonato e girovagato per il Delta del Mississippi con Robert Johnson.

sabato 26 maggio 2007

Dylan Thomas, citazioni in libertà

- Contengo in me una bestia, un angelo e un pazzo.

- Un alcolizzato è qualcuno che non vi piace che beve quanto voi.

- Uomo sii la mia metafora.

- Mi ci vogliono dieci paradossi per ricomporre in me una verità...



Luogo natale di Dylan Thomas, il Galles

Splendessero lanterne

Splendessero lanterne, il sacro volto,
Preso in un ottagono d’insolita luce,
Avvizzirebbe, e il giovane amoroso
Esiterebbe, prima di perdere la grazia.
I lineamenti, nel loro buio segreto,
Sono di carne, ma fate entrare il falso giorno
E dalle labbra le cadrà stinto pigmento,
La tela della mummia mostrerà un antico seno.

Mi fu detto: ragiona con il cuore;
Ma il cuore, come la testa, è un’inutile guida.
Mi fu detto: ragiona con il polso;
Ma, quando affretta, àltero il passo delle azioni
Finché il tetto ed i campi si livellano, uguali,
Così rapido fuggo, sfidando il tempo, calmo gentiluomo
Che dimena la barba al vento egiziano.

Ho udito molti anni di parole, e molti anni
Dovrebbero portare un mutamento.

La palla che lanciai giocando nel parco
Non è ancora scesa al suolo.

venerdì 25 maggio 2007

William Blake









Artista, artigiano e mistico, William Blake fu un incisore di grandissimo talento ed ideò una tecnica innovativa realizzando opere di sorprendente forza di immaginazione e trasferendo nel mondo reale le sue visioni spirituali.Verso il 1795 Blake realizzò una serie di monotipi che vanno generalmente sotto il nome di "grandi stampe a colori". Blake non amava la pittura ad olio, poco adatta ai contorni netti e lineari che trovava congeniali. Talvolta dipingeva a tempera ispirandosi all'essenzialità dei primi maestri del Rinascimento. Le sue prime opere a tempera furono a temi di carattere religioso; la maggior parte sono su tela, ma alcuni su rame.L'unico libro di Blake stampato con metodi tradizionali fu il primo "Schizzi poetici". In seguito tutti i suoi libri vennero prodotti con il nuovo metodo di "stampa miniata" che lui stesso aveva ideato, con testo ed illustrazioni combinati sulla stessa lastra.Negli ultimi anni del Settecento sperimentò l'idea di applicare i colori sulla lastra, ma decise di tornare alla stampa ad inchiostro monocromatico colorando poi ogni pagina a mano con penna ed acquarello.I primi volumi miniati avevano le dimensioni di un tascabile di oggi, ma in seguito l'artista optò per un formato più grande, per dare maggior rilievo alle illustrazioni.L'ultimo grande libro miniato di Blake fu "Gerusalemme", realizzato tra il 1804 ed il 1820 circa.L'ultimo grande progetto di Blake, rimasto incompiuto alla sua morte, è una serie di illustrazioni per la Divina Commedia di Dante, eseguite a partire dal 1824 su commissione di John Linnell.

giovedì 24 maggio 2007

La leggenda di San Galgano


















Sopra: foto dell'Abbazia di San Galgano (da me scattata), ultima tappa di un viaggio prima di rientrare a Bologna, con il quale ho toccato Bomarzo col Parco dei Mostri, Tarquinia con gli scavi etruschi, Orbetello e la sua laguna, un pezzo di Parco Naturale della Maremma e le isole del Giglio e di Giannutri. Proprio un bel viaggetto! Sotto: la spada di San Galgano conficcata nella roccia.

La spada nella roccia esiste veramente e si trova in Italia, a circa 30 km a sud di Siena, nella Cappella di Montesiepi, facente parte del complesso di San Galgano. E’ conficcata in un masso roccioso che emerge dal pavimento.
Per lo meno a giudicare dalla parte visibile sembra effettivamente, per quanto riguarda lo stile, una vera spada del XII secolo.
San Galgano e gli scarsi suoi elementi biografici certi, la presenza proprio qui di una delle due "spade nella roccia" note in Europa non fanno che alimentare il mito e la leggenda.
Il mistero di San Galgano e della spada nella roccia sono stati recentemente oggetto di una serie di indagini sia sul luogo sia sui reperti, curate da numerosi esperti delle Università di Pavia, Milano, Padova e Pisa.
Il complesso di San Galgano sorge in Val di Merse, ed è costituito da due strutture di età diversa: una è la cosiddetta Rotonda di San Galgano o eremo di Monte Siepi, dal nome dell'altura su cui sorge, datato agli ultimi decenni del XII secolo con aggiunte posteriori, fra cui la cappella edificata attorno al 1340, addossata alla parete nord della Rotonda ed affrescata da Ambrogio Lorenzetti; l'altra è la sottostante abbazia cistercense, edificata nel XIII secolo e di cui oggi resta la suggestiva struttura perimetrale priva della copertura del tetto.
La spada confitta nella roccia è l'elemento caratterizzante il luogo e attorno a cui ruotano tutti gli interrogativi: simulacro posteriore, falso ottocentesco o autentico miracolo?
La spada di Monte Siepi è testimoniata dal 1270 nelle immagini a sbalzo del reliquiario del santo, poi negli affreschi di Lorenzetti. Quanto emerge dal masso rimanda esattamente alla tipologia di una spada diffusa fra XII e XIII secolo; sarebbe quindi una autentica spada medievale anche se cruciale diviene a questo punto la datazione precisa: contemporanea a San Galgano o di poco posteriore?
L. Garlaschelli, ordinario di chimica organica presso l'università di Pavia, riferisce che nei resoconti degli scavi effettuati nel 1694, si parla di una spada collocata sotto l'altare della Rotonda e che si poteva rimuovere. Analogamente testimoni oculari narrano che agli inizi del secolo scorso la spada era protetta da una grata a cupola, con uno sportello attraverso cui si poteva sfilarla dalla fessura in cui era inserita. Durante i lavori di restauro del 1924 la grata è stata rimossa, mentre la lama è stata definitivamente bloccata versando piombo fuso nella fessura. Questo intervento probabilmente ha causato la rottura della spada negli anni '60, ad opera di un "vandalo" che voleva tentare di sfilarla senza tenere conto dell'effettivo blocco. Il moncone, troncato nella parte del forte, appena sotto la guardia, fu riposizionato con del cemento. Nel Marzo del '91 un altro individuo, subito fermato dai carabinieri, spaccò parte di questo cemento per estrarre la spada, che venne poi di nuovo sistemata al suo posto. Attualmente, dopo una serie di analisi che hanno liberato anche l'estremità superiore della lama ancora infitta nella roccia, il pezzo rotto è stato riposizionato con un morsetto metallico facilmente asportabile, collocato sul retro della lama e quindi non visibile ai visitatori e che non altera ulteriormente il manufatto, come invece hanno fato gli interventi precedenti. Due scagliette accidentalmente staccate della lama cementata, all'analisi si sono rivelati ossidi di metallo, quindi non analizzabili metallograficamente, con una composizione degli elementi in tracce che esclude un acciaio moderno, mentre è compatibile per un metallo medievale.
L'abbazia di San Galgano possiede un fascino unico, con il suo tetto scoperchiato ed il pavimento d'erba verdissima. I cistercensi iniziano nel 1227 la costruzione dell'abbazia, che terminerà nel 1288. La struttura ed i fregi sono tipicamente gotici, ed il rosone che domina la navata principale sta lì proprio a ricordarcelo. L'abbazia ha pianta a croce latina a tre navate, ricca di capitelli intarsiati, chiostro, sala capitolare, campanile etc. Nel 1340 fu iniziata la cappella sul lato nord, affrescata dal Lorenzetti.Già dalla metà del 15 secolo inizia il rapido decadimento dell'abbazia: nel 1550 i monaci erano ormai solo cinque, nel 1600 un solo vecchio e indigente monaco viveva fra le sue mura, ormai in rovina. Il 6 gennaio 1786 il campanile, alto 36 metri, crollò travolgendo buona parte del tetto. Nel 1789 la grande chiesa fu del tutto abbandonata divenendo così un'enorme cava di pietre e colonne per i paesi della zona.
Quando la spada divenne parte della pietra (metà del 1100) l'epopea arturiana era ai suoi inizi, anzi addirittura non era ancora nata: la storia di Galgano precede di ben 20/25 anni la compilazione della primissima versione del ciclo del Graal, stilata da Chrétien de Troyes. Pertanto anche l'ispirazione non è da ricondursi ad un folclorico richiamo alla nobiltà bretone: la spada di San Galgano era già lì, a testimonianza forse di un miracolo, e di certo di un mistero.
A Montesiepi la leggenda vuole che la spada sia stata confitta nella roccia in segno di rinuncia da parte del cavaliere Galgano al suo passato dissoluto.
Galgano Guidotti, nasce nel 1148 a Chiusino da una famiglia di nobile lignaggio. Qui deciderà di diventare cavaliere e per alcuni anni seguirà la via delle armi. Torna a Chiusdino in seguito ad un sogno mistico, in cui gli appare San Michele. Dopo aver vissuto una vita non troppo virtuosa, a seguito del sogno decide di diventare eremita: rinuncia alla guerra e pianta la spada nella roccia.
Per undici mesi compie miracoli: di questi prodigi non ci è dato sapere nulla, ma pare avessero una valenza più naturalistica che religiosa: si parla di alberi morti che rifioriscono, o di animali malati che guariscono. Nel corso di questi pochi mesi Galgano incontra anche Papa Alessandro III, che lo invita a costruire un'abbazia vicino al suo eremo. L'eremita morirà di stenti il 3 dicembre del 1181 nel corso di una gelida notte, passando il testimone a San Francesco, nato da pochi mesi. Sulla sua santità non vi fu mai dubbio, tanto che a soli 4 anni di distanza dalla sua morte già cominciò il processo di canonizzazione, di cui però - purtroppo - ci resta soltanto una trascrizione quattrocentesca. Il processo, ad ulteriore prova della santità, durò solo 3 giorni. Del santo ci resta solo la testa, che è custodita nel reliquiario della chiesa di Chiusdino. Sul teschio si diceva crescessero capelli biondi, tanto da assumerlo a protettore dei calvi. Non si sa dove sia stato disperso il corpo.

mercoledì 23 maggio 2007

Images from rock

Chi di voi conosce o ricorda Guy Peellaert, disegnatore pop fiammingo autore dei fantasiosi ritratti delle rockstar, raccolti nel meraviglioso libro "Rock Dreams"?
Eccone alcuni











martedì 22 maggio 2007

Hortus conclusus


Orto dei semplici modello Ulisse Aldrovandi

Margherita di campo per la tosse. Mughetto per i cardiopatici e tagete come insetticida....sono tutte piante, spesso assai comuni, che fanno bene alla salute, secondo le indicazioni della farmacopea antica. L'Orto dei semplici, inteso come il luogo che dal Medioevo si destinava alla coltivazione delle erbe medicinali, rinasce, secondo il disegno del grande naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi, nell'Orto Botanico dell'Università di Bologna, da lui stesso fondato. All'epoca, nel 1568, l'Orto dei semplici realizzato da Aldrovandi era nel cortile di Palazzo d'Accursio, e fu il quarto al mondo. Ora rinasce all'interno dell'Orto Botanico dell'Università, secondo un disegno anch'esso "aldrovandiano": una aiuola rotonda centrale e intorno altre quattro, a formare complessivamente un grande rettangolo, ordinato secondo una classificazione legata all'impiego nella farmacopea.

Al centro le piante ad attività antiparassitaria e insetticida, e nelle quattro aiuole rispettivamente quelle attive sulla cute e sul sistema nervoso; quelle curative del sistema muscolo scheletrico e dell'apparato genito-urinario; poi ancora le piante benefiche per l'apparato respiratorio e il sistema cardio circolatorio e infine il gruppo delle erbe utili all'apparato digerente.

La zona "ricostruita" è inserita nell'Orto Botanico.
L'impianto dell'Orto dei Semplici è ad uso didattico, e ogni pianta è corredata da una piccola scheda esplicativa, e l'idea della sua ricostruzione corrisponde a un interesse sempre più diffuso verso tutto ciò che è "naturale", dagli alimenti vegetali coltivati con metodi biologici, agli integratori alimentari per arrivare ai farmaci naturali ed ai prodotti erboristici per l'automedicazione.

Attualmente le piante medicinali sono impiegate in modo diverso rispetto alla prassi delle antiche officine, e sono utilizzate per estrarne diverse sostanze di uso farmaceutico, come ad esempio gli alcaloidi e i glicosidi.

Nel 1568 Ulisse Aldrovandi trasforma il viridarium del Cardinal Legato in Orto botanico con aiuole di forme geometriche sul modello del Giardino dei Semplici di Padova (1545) e del Giardino Pisano 1547). L’orto dei semplici deriva il suo nome da una classificazione medievale attribuita alla Scuola di Salerno che elencava le erbe di base, ritenute essenziali per una buona farmacopea: timo, rosmarino, salvia, maggiorana, acetosella, ecc.. Ulisse Aldrovandi è custode dell’Orto botanico per 50 anni e lo arricchisce con specie esotiche provenienti dall’India, dall’Africa e dall’America: un vero e proprio laboratorio di sperimentazioni naturalistiche a cui si fa risalire la nascita della moderna botanica. La pianta dell’orto era formata da quattro parterres rettangolari a disegni diversi, che contenevano quattro vasche per l’irrigazione I resti della vasca cruciforme, dedicata alla coltura delle piante acquatiche, sono visibili nel riquadro a nord-ovest dello scavo archeologico. Il sistema di irrigazione era regolato dalla cisterna situata al centro dell’orto, oggi evidenziata dal “semicerchio” sul pavimento della piazza coperta. Nel 1587, Francesco Morandi detto “il Terribilia” costruisce sopra la cisterna una deliziosa edicola corinzia, trasferita nel 1886 nel cortile della Pinacoteca in occasione della costruzione della futura Sala Borsa. Una replica dell’opera è oggi visibile nel cortile del pozzo di Palazzo d’Accursio.

Da orto a campo di addestramento

Nel 1765 l'Orto botanico viene trasferito in Via San Giuliano e successivamente durante il periodo napoleonico, nella sede definitiva della Palazzina della Viola, dove ancor oggi è l'Orto botanico della facoltà di Agraria. Alla fine dell'800 si assiste quindi alla definitiva trasformazione del giardino di palazzo e gli ultimi atti della rimozione dell'antico orto pubblico lasciano spazio ad un cortile erboso, utilizzato per oltre un secolo come campo di addestramento delle milizie cittadine e di esercitazioni dei pompieri.

Il primo Orto dei Semplici dell'Università di Bologna fu costruito da Ulisse Aldrovandi nel 1568, nel cortile di Palazzo d'Accursio, e fu il quarto al mondo dopo quelli di Pisa, Padova e Firenze, tutti fondati attorno alla metà del '500. L'Orto dei Semplici ricostruito entro lo spazio dell'Orto Botanico riprende la pianta e rievoca lo spirito di quel primo giardino aldrovandiano

Gli Orti Botanici che si trovano in tante città, spesso (ma non sempre) associati ad università, hanno un'origine lontana nel tempo. Il loro progenitore è l'Orto dei Semplici, od Hortus simplicium, luogo destinato, nel Medio Evo, alla coltivazione e allo studio delle piante medicinali. «Semplici» venivano chiamati, nella terminologia medievale, i principi curativi che venivano ottenuti direttamente dalla natura, mentre «Compositi» erano i farmaci ottenuti miscelando e trattando sostanze diverse. I farmaci venivano sottoposti a vari trattamenti (essicazione, macerazione, ecc.) nel laboratorio, chiamato, con termine latino, officina. Per ciò le piante medicinali vengono chiamate ancor oggi anche «piante officinali».

Per rendere più agevole il percorso attraverso la terapia moderna e del passato, nel nuovo Orto dei Semplici le piante sono ordinate, a scopo puramente didattico, in settori corrispondenti al loro impiego più comune. Anche questo tipo di classificazione non si presenta esauriente, in quanto molte piante presentano diversi impieghi, e dovrebbero quindi essere riportate in più settori. La visita dell'Orto dei Semplici vuole suscitare nel visitatore il desiderio di conoscere le piante medicinali nel loro uso storico e nella terapia moderna.

lunedì 21 maggio 2007

Carenze strutturali, economiche, sociali

1) La chiamano la generazione dei milleuristi: giovani nati tra il 1968 e il 1982, nella stragrande maggioranza dei casi laureati, talvolta con master, corsi di specializzazione ed esperienze formative all'estero. Gente che è costretta, per ragioni economiche, a rimanere a vivere con i genitori fin oltre i 32 anni o, se si trasferiscono, devono condividere l'appartamento con altre persone per ottimizzare le spese di affitto e quant'altro. Ragazzi e ragazze che faticano a sbarcare il lunario, inseriti in un mondo di incertezze per il futuro, parossistica flessibilità e precariato. Se una volta i poveri, o comunque quelli che di più faticavano ad arrivare alla fine del mese, erano i braccianti agricoli, se oggi quelli che faticano maggiormente ad arrivare alla fine del mese sono i pensionati e gli operai, ben presto i nuovi poveri non saranno gli anziani, bensì quelli delle generazioni più giovani appena usciti da scuole ed università. Perché a ben poco vale la formazione se poi il mondo del lavoro non offre delle opportunità reali, tangibili. In Spagna, dove ci stanno dimostrando di essere più cazzuti e combattivi talvolta di noi italiani, i giovani appartenenti alla categoria dei "mileuristas" si sono costituiti in movimento, fanno nascere blog, forum e punti di incontro e discussione in rete.
Contrariamente a quanti potrebbero pensarlo, non sono di sinistra, né tantomeno di destra, non credono più in una politica che li ha già ampiamente illusi e disillusi, e di recente alcuni rappresentanti del movimento hanno partecipato ad una trasmissione TV in Spagna dal titolo "Tengo una pregunta por usted" (Ho una domanda per Lei), dove stavano intervistando il Primo Ministro Zapatero, per richiamarlo al rispetto delle promesse e degli obiettivi di governo fissati tre anni fa.

2) In seguito ad un computo del monte totale annuo di ore lavorate dagli impiegati ed operai dei vari Paesi dell'Unione Europea, risulta che noi italiani lavoriamo di più rispetto ai nostri concittadini francesi, tedeschi ed inglesi. Ma paradossalmente il tasso di produttività e la crescita economica qui da noi stagnano. In poche parole a noi serve il doppio del tempo rispetto ai nostri cugini francesi e ai colleghi tedeschi e britannici per il raggiungimento del medesimo obiettivo di produttività. Ma da cosa dipende questo fatto? Contrariamente a quanto pensavano rispettivamente quel fighetto di Montezemolo e quella iena ridens del Cavaliere quando era al governo, cioè all'incirca che "non si può fare affidamento su una classe operaia che gode di 30 giorni di ferie pagate all'anno" e "ci sono troppe feste comandate, religiose e non, bisogna abolirne qualcuna", la colpa non è da imputare ai lavoratori dipendenti, bensì, udite udite, al sistema "aziende". Perché, lo ricordo, il panorama italiano delle aziende è costituito per il 90-95% principalmente da aziende di dimensioni molto piccole, il più delle volte a gestione familiare. E in questo panorama così frammentato le aziende sono spesso caratterizzate da poca tecnologia, mediocre organizzazione del lavoro e scarse dotazioni informatiche. E' quindi un problema di investimenti.
Meditate signori imprenditori, meditate!

domenica 20 maggio 2007

Bomarzo















(Alcune delle foto che ho scattato nel Parco dei Mostri di Bomarzo in occasione di una mia visita)

Il cosiddetto Parco dei Mostri di Bomarzo (VT) è un complesso monumentale situato alle pendici di un vero e proprio anfiteatro naturale.
Qui Pier Francesco Orsini (detto Vicino "sol per sfogare il core" rotto per la morte della moglie Giulia Farnese) fece costruire nel 1552 alcuni monumenti che raffigurano animali mostruosi e mitologici. Gli architetti erano Pirro Ligorio (completò San Pietro dopo la morte di Michelangelo e realizzò Villa d'Este a Tivoli), il grande Jacopo Barozzi da Vignola ed altri successori. Chiamò il parco Sacro Bosco e lo dedicò alla sua moglie, Giulia Farnese (non quella che era la concubina del papa Alessando VI). Vi sono anche architetture impossibili, come la casa inclinata, o alcune statue enigmatiche che rappresentano forse le tappe di un itinerario di matrice alchemica.
Iscrizioni sui monumenti stupiscono e confondono il visitatore. Forse questa era l'intenzione del principe: (Voi che pel mondo gite errando vaghi di veder meraviglie alte et stupende). Ci sono anche implicazioni morali: (Animus quiescendo fit prudentior ergo). O forse il complesso fu fatto semplicemente "per arte" in un doppio senso della parola (Tu ch'entri qua con mente parte a parte et dimmi poi se tante meraviglie sien fatte per inganno o pur per arte).
Scienziati storici e filologici hanno fatto parecchi tentativi di spiegare il labirinto di simboli, e hanno trovato temi antichi e motivi della letteratura rinascimentale, per esempio del Canzoniere di Petrarca, dell'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto e del poema Amadigi di Bernardo Tasso. Sono rimasti però tanti misteri che un programma universale, alla fine, non potrebbe essere provato.
Dopo la morte dell'ultimo principe Orsini nel 1585 il parco fu abbandonato e seguì un lungo oblio fino al 1954 quando il Parco dei Mostri venne acquistato da Giovanni Bettini, che con amorevole cura lo restaurò insieme alla moglie Tina Severi Bettini e lo gestì; sono sepolti nel tempietto che forse è anche il sepolcro di Giulia Farnese.

Enotria Tellus dal cielo

Il nostro paese ancor oggi si suole ogni tanto chiamarlo Enotria Tellus, cioè la terra del vino. Gli enotri, popolo proveniente dalla Grecia centrale, avevano occupato la parte meridionale dello stivale, e fu proprio uno di loro, tale Enotro, a guidare la colonizzazione di queste terre, portandovi le prime barbatelle provenienti dall'Egeo. Da allora la diffusione della vite si espanse, risalendo rapidamente la penisola verso nord fino all'allora limite invalicabile delle Alpi.
Spesso ci dimentichiamo di vivere in un paese meraviglioso e prezioso. L'altro giorno per TV, ascoltando un servizio sull'ambiente in cui veniva intervistato un comandante del Corpo Forestale dello Stato, ho sentito che l'Italia possiede il 50% della biodiversità animale di tutto il continente europeo ed un terzo della flora. Siamo un tesoro a cielo aperto.
Per apprezzare l'Italia vista da una prospettiva diversa, cioè con riprese aeree, vi segnalo questo sito: http://www.thais.it/itinerari/orlandi/default.htm, con riprese aeree del fotografo Piero Orlandi.

sabato 19 maggio 2007

Occhi


Gli occhi sono lo "specchio dell'anima" tanto da poter rivelare la personalità e la storia di una persona. Occhi: espressione dello sguardo che indica qualità o difetti dell'animo. Vivere la vita guardando con gli occhi di un fanciullo, occhi innocenti, disarmanti.
Zucchero - Occhi

Poi, ho visto gli occhi tuoi
Rotolando verso casa
Chiamare i miei
Che bella sei
Che belle fai
Le belle sere
Sai, ho visto gli occhi tuoi
Quando scende
La bellezza
In fondo al cuore
Come vorrei……
Come sei bella
Flying away
Tu scendi da una stella
Flying away
Cosi’ talmente bella
Flying away……
Poi, ho visto gli occhi suoi
Come grano in mano al vento
Son ciliegie del mio pianto
Cosi’ tanto io ti sento
Sai, ho visto te con lui
Quando scende
La tristezza
In fondo al cuore
Come vorrei…
Come sei bella
Flying away
Tu scendi da una stella
Flying away
Cosi’ talmente bella
Flying away…..
Dov’e’
Che il vento
Ti porta via
Dov’e’
Che il cielo
Tramonta
Quando scende
La tristezza
E invade gli occhi
Come vorrei……
Come sei bella
Flying away
Tu scendi da una stella
Flying away
Cosi’ talmente bella
Flying away……
Cosi’ talmente bella
Flying away…….
E te ne vai
Te ne vai
Te ne vai….via….via…..via….

venerdì 18 maggio 2007

Tedio


Tedio, sostantivo: noia, che si patisce nell' aspettare, rincrescimento.
Sinonimi: fastidio, grigiore, noia, spleen, disagio, disturbo, malinconia, malumore, tristezza, uggia, strazio Vedi anche: monotonia, piattume, tetraggine, malessere, pesantezza, insofferenza, pizza, barba. Contrari: diletto, divertimento, felicità V. anche delizia, gaudio, gioia, letizia, distrazione, diversivo, gioco, passatempo, ricreazione, sollazzo, spasso, svago, trastullo, estasi, rapimento, visibilio.
***


Il significato di philia in greco è "amicizia". Ma il termine ha altre sfumature semantiche. Se philia è il polo positivo, il polo negativo, l'antagonista, va cercato nel "male di vivere" montaliano, nella tristezza, nel "teater morbus" che distrusse Catullo e Lucrezio, nell'acedia di Petrarca fino ad arrivare al "tedio" leopardiano, allo spleen di Baudelaire o al male oscuro di Giuseppe Berto. Il tedio leopardiano, l’essere scontenti di sé, l’inquietudine di un animo che non trova requie in nessun luogo, che non sopporta la casa, la solitudine, le pareti, produce la putredine di un animo che s’intorpidisce in mezzo ai desideri delusi. Troppi vanno in giro senza uno scopo prefisso, ma si fermano là dove sono inciampati per caso. Un correre irriflessivo, come lo strisciare delle formiche lungo gli alberi: corrono in su e tornano in giù inutilmente.L'uomo è destinato a non godere d’alcun bene, si dispera, è afflitto da un tedio mortale che lo spinge al suicidio, dal quale lo trattengono la paura della morte e la superstizione religiosa. L'aspirazione all'irraggiungibile verità è il massimo tormento della vita ed è senza speranza, infatti, l'uomo è destinato a non sapere perché sia nato, viva, soffra, dove vada."Il malcontento", dice Svevo, è contrassegno che distingue l'uomo dall'animale, e noi pensiamo al tedio leopardiano esclusivo dell'animale uomo.
La modernità del concetto di inettitudine (come disadattamento al reale ed impotenza) compare nelle tematiche leopardiane con l'emergere nell'umanità dell'elemento razionale. Si evidenzia cioè con il trionfo della ragione.
"il male intrinseco all'essere originario e permanente delle cose si profila... nella sua costernante evidenza (emerge) l'identità di progresso e decadenza, di avanzamento e distruzione, di verità ed impotenza, di coscienza e nullità" (M.A. Rigoni, La strage delle illusioni).
In queste riflessioni si anticipa una delle più importanti acquisizioni della modernità che vive appunto nella costante polarità irrisolta di conoscenza ed errore, di coscienza ed impossibile illusione. Tutta la tensione romantica a cogliere l'infinito al di là del contingente, riconduce "al più sublime dei sentimenti umani: la noia.
"Poco propriamente si dice che la noia è mal comune . Comune è l'essere disoccupato, o sfaccendato, per dir meglio; non annoiato. La noia non è se non di quelli in cui lo spirito è qualche cosa. Più può lo spirito in alcuno, più la noia è frequente, penosa e terribile. la massima parte degli uomini trova bastante occupazione in che che sia, e bastante diletto in qualunque occupazione insulsa; e quando è del tutto disoccupata, non prova perciò gran pena. Di qui nasce che gli uomini di sentimento sono sì poco intesi circa la noia, e fanno il volgo talvolta maravigliare talvolta ridere, quando parlano della medesima e se ne dolgono con quella gravità di parole, che si usa in proposito dei mali maggiori e più inevitabili della vita" (LXVII Zibaldone, Leopardi)

"La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani . (......) Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena , né, per dir così dalla terra intera, considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'animo ed il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e nobiltà, che si veggia nella natura umana. perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento e pochissimo o nulla agli altri animali (LXVIII Zibaldone, Leopardi)

"Veramente per la noia non credo che si debba intendere altro che il desiderio puro della felicità (...) Il qual desiderio non è mai soddisfatto; e il piacere propriamente non si trova. Sicché la vita umana è intessuta parte di dolore e parte di noia; dall'una delle quali passioni non ha riposo se non cadendo nell'altra" (Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, 1824, Leopardi)
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d’affanno
Quasi libera vai;
Ch’ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
Tu se’ queta e contenta;
E gran parte dell’anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
E un fastidio m’ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell’agio, ozioso,
S’appaga ogni animale;
Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
(G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia)
Riflettendo su questi passi troviamo delineate tutte le dinamiche cognitive ed affettive che guidano l'uomo moderno a definire l'orizzonte d'attesa circa la sua esistenza, al di là dei confini della necessità.
Tedio Invernale - Giosué Carducci

Ma ci fu dunque un giorno
su questa, terra il sole?
Ci fùr rose e viole,
luce, sorriso, ardor?

Ma ci fu dunque un giorno
la dolce giovinezza
la gloria e la bellezza
fede, virtude, amor?

Ciò forse avvenne ai tempi
d'Omero e di Valmichi,

ma quei son tempi antichi,
il sole or non è più.

E questa ov'io m'avvolgo
nebbia di verno immondo
è cenere d'un mondo
che forse un giorno fu.

I limoni - Eugenio Montale

Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si ascolta il sussurro
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest'odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l'odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità

Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case,
la luce si fa avara - amara l'anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d'oro della solarità.

giovedì 17 maggio 2007

Enigmi

Fra pochi giorni si concluderà la retrospettiva di Giorgio De Chirico nella suggestiva cornice di Palazzo Zabarella a Padova, il cui cortile di accesso alla mostra mi ha già di per sé rivelato aspetti metafisici :-)

Giorgio De Chirico, il «conservatore rivoluzionario», uno che aveva saputo tradurre in invenzioni diverse, nei primi tre decenni del secolo, il risvolto oscuro della modernità, già indagato dai filosofi del «pensiero negativo». Aveva evocato gli enigmi dell’esistenza, dietro l’opaca consistenza delle cose quotidiane e banali. Ne aveva rivelato l’insensatezza, nel crollo delle certezze della ragione. Aveva sublimato ipocondria e narcisismo svolgendo i temi della malinconia, della finzione, del sogno. Aveva presagito la crisi del «progresso», con intuizioni visionarie ad altaintensità: l’errare come Ulisse verso l’ignoto, l’umanità «senza volto». Come antidoto liberatorio alle costrizioni del Logos aveva rilanciato il Mito, versione mediterranea della «gaia scienza» propugnata da Nietzsche. E dunque la poesia, il gioco, come conoscenza. L’affioramento dei ricordi come sparse perle di una collana della memoria. Ma proprio la rottura del filo logico comporta lo sguardo straniante, la distanza dell’ironia, l’eco della solitudine e del silenzio, l’appiglio della citazione. L' "Enigma dell'oracolo" è il quadro di magnetico smarrimento che apre la stagione dei sondaggi oltre i limiti visibili delle cose, meta physiké: le «piazze d’Italia» nella luce pomeridiana di ombre lunghe, con le pensose statue-personaggi (spicca la Malinconia del 1912) e i ripidi portici ciechi, le torri e le ciminiere in erezione solitaria contro cieli acidi. I muretti che precludono infiniti leopardiani, dietro cui scorre una vela o uno sbuffo di locomotiva (il padre era ingegnere ferroviario). I sogni inquietanti: carciofi, banane, ananas associati con giocattoli o armi. Le allucinazioni del 1914: il fantasma del padre morto (Il ritornante ovvero Il cervello del bambino), il veggente con occhio bendato (La nostalgia del poeta), il primo dei profetici manichini, androidi con organi geometrici (Il viaggio senza fine). Serie che prosegue, anche con il gruppo dei Trovatori , sino al 1922-24.Nel periodo trascorso a Ferrara (1916-17), città della metafisica, si accumulano, in stanze da soffitta, biscotti, giocattoli,stampi di pesci, lavagne astrali, atlanti, mostrine militari, righe e squadre, quadri nel quadro, «pesci sacri». Epifania del quotidiano, riassunta nella parola aidelon, «invisibile», stampata contro la colonnina di un termometro nel Sogno di Tobia. De Chirico afferma: «Bisogna scoprire il demone in ogni cosa».Un «secondo tempo» metafisico è segnato dal ritorno a Parigi fra il 1925 e il 1929, quando De Chirico riprende - seppure per poco - i rapporti con i surrealisti che lo avevano salutato come maestro e precursore: mobili chesi accumulano come personaggi monumentali fra paesaggi aperti e stanze chiuse, manichini tramutanti in animate statue antiche, gladiatori ambiguamente avvinghiati. Cambia anche la pittura, filamentosa, bioccosa, tendente alla monocromìa. Seguirà l’intrigante serie dei Bagni misteriosi del 1934-35, nata da una cartella di dieci litografie a commento di poesie di Jean Cocteau e poi tradotta in quadri. Appaiono labirinti di stabilimenti balneari con palafitte immerse in vasche e canali di acqua trattata come un parqueta spighe, in cui sono infissi bagnanti e mostri, al cospetto di spettatori magrittiani, vestiti di tutto punto.

De Chirico guarda solo alla sua pittura enigmatica, portatrice di un senso di abbandono, di un velo di mistero che permea ogni opera e sono proprio questi gli elementi che mantengono tuttora una carica innovativa ed emozionante: guardare queste opere è una lenta osservazione, uno scandaglio che esplora le profondità, una paziente ricerca del dettaglio, una continua riscoperta di riferimenti e di apparenze, di quel senso di mistero che de Chirico riassumeva in una sola parola: enigma. È decisamente una pittura difficile e raffinata che farà osservare come "le architetture e gli oggetti collocati nello spazio secondo prospettive multiple perdono il loro significato comune e diventano simboli o metafore di concetti nascosti dietro l'apparenza del mondo visibile. La metafisica diventa la scoperta del mistero che si cela negli aspetti più comuni del vivere, davanti ai nostri occhi". Una novità densa di fascino che manterrà tutta la sua portata inquietante tale da produrre innumerevoli interpretazioni critiche e numerose spiegazioni della pittura metafisica.

Nel 1918 De Chirico spiegherà: "C'è molto più mistero in una piazza fossilizzata nel chiarore di un meriggio che non nelle scienze occulte. La figura umana (e tutto ciò che è vitale), è un paravento che ci nasconde molte cose". La rivelazione nasce appunto dalla pietrificazione e cioè dalla sostituzione del paesaggio con le architetture, e dell'uomo con la statua che poi sarà manichino. Questo processo di pietrificazione, di stupore nell'immobilità, di fossilizzazione dello spazio e del tempo è la vera essenza della metafisica di De Chirico: "L'arte... ci consiglia oggi più che mai l'inquadramento e la diasprificazione totale dell'universo. Il cielo deve essere serrato tra i rettangoli delle finestre e le arcate dei portici cittadini perchè lo si possa mungere sapientemente alle vaste mammelle della sua cupola traditrice. La stessa terra... è vinta oggi dalla metafisicità delle umane costruzioni... Tu vedi una stazione ferroviaria, una piazza circondata da cubi di pietra colorata ed adorna di squares e di statue in paletot, far zampillare getti altissimi, veri geyser di lirismo metafisico...".



Alla fine del 1909 si entra nel vivo della metafisica con le prime rivelazioni di un mondo inquietante e denso di enigmi di fronte al quale l’artista si pone con il “sentimento della preistoria” e il “senso del presagio”, vale a dire disponendo il suo animo e la sua sensibilità con quello stesso affinamento dell’intuizione che guidava gli uomini primitivi aiutandoli a percepire i presagi e ad avvertire la voce degli oracoli in una natura ostile e misteriosa. In questa atmosfera magica, dominata dal silenzio e dall’immobilità, sono immersi dipinti come L’enigma dell’oracolo (1909) e L’enigma dell’arrivo e del pomeriggio (1911-12). Statue di divinità o di filosofi tra architetture misteriose sulla riva del mare, muri oltre i quali si levano le vele dei naviganti, metafore dell’idea del viaggio e delle avventure della mente. Alle piazze dove giacciono le Arianne addormentate, prigioniere in marmorei monumenti e circondate da portici, si contrappongono quelle in cui monumenti maschili di eroi borghesi o militari si accompagnano a ciminiere e cannoni. E’ il dualismo femminile-maschile sintetizzato nelle figure simboliche di Arianna e Dioniso, con le quali de Chirico rappresenta i due poli della mente contrapposti ma complementari alla nascita dell’arte: profondità e intuizione dell’anima femminile, creatività e forza dell’elemento maschile. Dipinti famosi come Melanconia (1912) o La mattinata angosciosa (1912) che hanno profondamente influenzato l’estetica degli anni tra le due guerre, sono anche legati alla rielaborazione di ricordi e vicende personali, come il primo passaggio da a Torino nel luglio 1911, la diserzione e la fuga dopo la seconda visita nel marzo 1912, la sindrome melanconica seguita alla morte del padre, la lettura di Nietzsche e l’identificazione con la sua vicenda intellettuale e psichica. La figura maschile, con la sua pluralità di valenze simboliche, sia di origine psicanalitica sia di ordine filosofico, passa dalle fattezze umane a quelle pietrificate della statua: come nell’ Enigma di una giornata (II), (1914) .

mercoledì 16 maggio 2007

Il tempo della farfalla

In genere la vita da "farfalla" è abbastanza breve, varia da qualche giorno ad una settimana o due e, solo in alcuni casi, raggiunge il mese di vita. Una brevissima poesia, composta dallo scrittore indiano Rabindranath Tagore, premio Nobel nel 1913, recita: "La farfalla non conta gli anni ma gli istanti: per questo il suo breve tempo le basta". Questa metafora può diventare la base di partenza da cui iniziare il percorso di riflessione sulla soggettività della percezione. Alla base delle notevoli problematiche interpersonali, che purtroppo popolano il nostro mondo, c'è il diverso modo di leggere la realtà. Basta infatti ascoltare le ragioni di due persone in conflitto per capire come ognuno abbia una visione opposta della situazione e come, quindi, sia difficile metterli d'accordo. Jean Renoir, regista francese, fa dire ad un suo personaggio: "Il dramma della vita è che tutti hanno le loro buone ragioni". Gli esseri umani, quando s'incontrano, invece di circoscrivere il "campo semantico", vale a dire l'insieme dei significati a disposizione per stabilire la relazione interpersonale, tendono ad ampliarlo con altre categorie, facendolo diventare l'area di scontro sulle diversità interpretative. Tali categorie semantiche sono, per molti di noi, una sorta di prigione che ci impedisce di ampliare i nostri spazi, di vedere nuovi orizzonti. Dice il poeta William Blake: "Se si pulissero le porte della percezione, ogni cosa apparirebbe all'uomo come essa veramente è, infinita. Invece l'uomo si è da se stesso rinchiuso, fino a non vedere più le cose, se non attraverso le strette feritoie della sua caverna". Ecco, allora, l'esigenza di ricercare la libertà di spaziare, di trovare il proprio percorso personale, fuori da schemi predefiniti e vincolanti. Va superato, quindi, quello stato di chiusura in un mondo circoscritto dove gli obiettivi e le aspettative, molte volte, risultano retaggio di condizionamenti introiettati passivamente. La dipendenza dagli "assunti di base", costituiti dalle nostre idee radicate interiormente, che divengono parametri di valutazione dell'adeguatezza sociale, va in controtendenza con l'esigenza di esprimere, invece, la propria libertà. La libertà di scegliere, di decidere il proprio cammino, può orientare l'individuo verso una lettura positiva della realtà, anche quando questa, a prima vista, appare del tutto diversa. Riporto una parabola cinese: "C'era una volta in Cina un vecchio contadino che aveva un figlio ed una cavalla. Una sera la cavalla fuggì; allora i contadini che abitavano nelle vicinanze andarono da lui per manifestargli la loro solidarietà per quell'evento negativo: ma egli, invece di esprimere il proprio dolore, dichiarò che forse non era una disgrazia. Infatti, il giorno dopo, la cavalla tornò con tre stalloni. Ed allora tutti i contadini andarono a manifestargli la loro gioia per l'evento positivo: egli, invece, dichiarò che forse non era una fortuna. Infatti, il giorno dopo, il figlio del contadino per cavalcare uno degli stalloni cadde da cavallo e si ruppe una gamba; stessa processione dei contadini e stessa risposta del vecchio saggio. Infatti, mentre il ragazzo era all'ospedale, il soffitto della sua camera crollò, ma egli non subì alcun danno". Morale della favola: ciascuno di noi ha la possibilità di costruirsi chiavi interpretative favorevoli per uscire dai vincoli di una visione triste della vita. Il professor Kitting, nel film "L'attimo fuggente", ripete una frase del poeta americano Henry David Thoreau, "molti uomini vivono vite di quieta disperazione", a conferma che si può condurre la propria vita senza determinazione ed impegno per il miglioramento delle proprie condizioni, nascondendo la testa sotto la sabbia, come gli struzzi, invece di affrontare la realtà. E sullo stesso tema, Oscar Wilde aggiunge che: "Vivere è la cosa più rara al mondo. La maggior parte della gente esiste, e nulla più". Per dare uno spunto di umorismo ad un tema così serio, vale la pena di riportare la battuta di Woody Allen sulla visione assolutamente negativa della vita che un individuo può avere: "Non sono un atleta. Ho cattivi riflessi. Una volta sono stato investito da un'automobile spinta da due tizi".



Archy e Mehitabel è il titolo dato dallo scrittore americano Don Marquis ad una serie di articoli pubblicati su un giornale settimanale, articoli con poesie che avevano come protagonisti Archy, un burdigone (come si dice a Bologna, cioè uno scarafaggio), e Mehitabel, un gatto di strada. Archy nella sua vita precedente era stato un poeta e decide di scrivere le sue memorie e le sue avventure, ma essendo una blatta, non riesce ad arrampicarsi sulla macchina da scrivere per premere il tasto della lettera maiuscola. Ed è per questo che i testi sono senza lettere maiuscole, e spesso anche senza punteggiature. Per ritornare alle farfalle - la vera ragione intrinseca che mi ha portato a scrivere questo post - con la loro bellezza fragile e caduca, concludo riportando una poesia dalla raccolta di storie succitata, poesia dedicata ad una farfalla notturna. Il testo, in lingua originale, mi è stato spedito da una cara amica praghese:


the lesson of the moth


i was talking to a moth
the other evening
he was trying to break into
an electric light bulb
and fry himself on the wires
why do you fellow
spull this stunt i asked him
because it is the conventional
thing for moths or why
if that had been an uncovered
candle instead of an electric
light bulb you would
now be a small unsightly cinder
have you no sense
plenty of it he answered
but at times we get tired
of using it
we get bored with the routine
and crave beauty
and excitement
fire is beautiful
and we know that if we get
too close it will kill us
but what does that matter
it is better to be happy
for a moment
and be burned up with beauty
han to live a long time
and be bored all the while
so we wad all our life up
nto one little roll
and then we shoot the roll
that is what life is for
it is better to be a part of beauty
or one instant and then cease to
exist than to exist forever
and never be a part of beauty
our attitude toward life
is come easy go easy
we are like human beings
sed to be before they became
too civilized to enjoy themselves
and before i could argue him
out of his philosophy
he went and immolated himself
on a patent cigar lighter
i do not agree with him
myself i would rather have
half the happiness and twice
the longevity
but at the same time i wish
there was something i wanted
as badly as he wanted to fry himself
archy



Informazioni su Don Marquis e la sua opera: http://www.donmarquis.com/index.html
"Il pettirosso e il verme", da Archy e Mehitabel: http://www.thejag.org/teche/poesie/il-pettirosso-e-il-verme.htm

Alcune citazioni di Don Marquis:

Scrivere un libro di poesie è come buttare un petalo di rosa nel Grand Canyon e aspettare l'eco.

Il nostro è un mondo in cui le persone non sanno cosa vogliono e sono disposte a passare un'inferno per ottenerlo.

Le persone di successo sono quelle che inventano delle cose per tenere occupato il resto del mondo.

Un ottimista è un ragazzo che non ha fatto molta esperienza.

Ciò che l'uomo chiama civilizzazione risulta sempre un deserto.

Un demagogo è una persona con la quale non siamo d'accordo riguardo a quale gang dovrà amministrare male il paese.

Un'idea non è responsabile delle persone che ci credono.

La procastinazione è / l'arte di tenersi / al passo con ieri.

domenica 13 maggio 2007

Unveiled intimacy

Ritrarre sé stessi come spogliati da intenzioni secondarie, in modo genuino e spontaneo, per mostrare la propria vulnerabilità.
BLACK NIGHT IS FALLING (C. Brown)

Black night
Is falling
Oh, I hate to be alone
I keep crying
For my baby
Another night
Is gone, is gone.
Have mercy on my soul.
I don’t know I’m living
Since my baby been gone
Brother is in Korea
Sister is in New Orleans.

Black night
Is falling
Oh, I hate to be alone
I keep crying
For my baby
Another night
Is gone.

Mother dead and gone
And my father, too
Walking ‘round the circles
I don’t know what to do.

Black night
Is falling
Oh, I hate being alone
I keep crying, crying
For my baby
Another night
Is gone
Yes, it is.

I wished I had
I wished I had
My mother here
She could talk, talk to me
I know she’s gone, she’s gone
I’ve been disguised
I got nobody
Sittin’ here
Talk to me.
Black night, black night
Keeps falling
You know I hate to be alone.
I keep crying
For my baby
Another night, another night
Is gone.

I don’t know I’m living
Since my baby been gone
Walking ‘round the circles
I don’t know what to do.

Black night
Is falling
Oh, I hate
Being alone
I keep crying
For my baby
Another night is gone.

sabato 12 maggio 2007

Invito alla lettura


Jacky Law, "Big Pharma - Come l'industria farmaceutica controlla la nostra salute", Einaudi Stile Libero
Un atto d'accusa contro le multinazionali farmaceutiche che dominano il business più redditizio del mondo. Il libro spiega come l'insieme di queste multinazionali, col passare del tempo, sì è progressivamente allontanato dal suo obiettivo primario: la salute e il benessere delle persone.
La ricerca del profitto non coincide più con la tutela della salute. Il marketing veicola la ricerca scientifica e la orienta verso la creazione di farmaci spesso inutili, nel peggiore dei casi dannosi. Il costo delle medicine continua a crescere senza sosta, mentre diminuiscono le scoperte di nuovi principi attivi. In una situazione dove gli studi scientifici sono manipolati e i ricercatori e le autorità di controllo corrotti o intimiditi tutto questo va a scapito di una ricerca orientata verso le malattie che affliggono i paesi in via di sviluppo e per le quali non esiste ancora una cura, sebbene le potenzialità ci siano, poiché le suddette malattie non vengono considerate, secondo la logica del mercato di queste grosse multinazionali, "redditizie". Si sta insomma assistendo ad una "medicalizzazione" della società (attuata tramite le lifestyle drugs) imposta dal marketing. Il cittadino ha diritto a riconquistare il controllo sulla propria salute da persona responsabile ed informata e non più passiva.
Un mostro ci è cresciuto dentro tanto velocemente che non ci siamo ancora bene resi conto degli effetti.
E' il cittadino che deve controllare il proprio destino.

venerdì 11 maggio 2007

LA LOGICA DEL VENTO: ESAD BABAČIĆ E PETER SEMOLIČ


La poesia di due quarantenni sloveni di Lubiana, poesia carnale che fa del corpo una realtà da toccare ed apprezzare in ogni sua sfaccettatura. Poesia concreta dove il vento sembra pesare quanto un macigno, dove la carne sprigiona desiderio, dove l'apparentemente insignificante volo di un'ape si carica del significato di una condizione di sofferenza legata alla mancanza di affetti. Questa poesia così reale e senza schermature dell'ego ci consegna due poeti che disvelano tutte le loro debolezze, le loro semplicità e il loro concetto di impellente necessità poetica.

ESAD BABAČIĆ

La logica del vento
E’ ripido e pallido/il paradiso del Triglav./Quando vi entri/le poiane/ti difendono/dagli spiriti maligni./Quando esci/sei buio,/più potente/del cielo/che muto/risplende.

A te
Mi vesto sempre troppo in fretta,/dopo ti aspetto a lungo,/troppo a lungo, la mia vita/si capovolge mille volte/prima che tu arrivi,/ed è primavera,/io invece nudo./Ad aspettarti.

Che cosa occorre alla poesia
Molta aria./E un paesaggio./In mezzo al paesaggio/un uomo che siede/accanto al fuoco/e si scalda le mani.

Autunno
L’ambiente è spaventoso,/perfino il boia chiude gli occhi/quando a una foglia/si tira il collo.

Lirica
Sei una nave./Io sono un marinaio ridicolo/che guarda minaccioso/verso il tuo ponte di comando.

Gennaio
Gennaio avvolgiti nella parola del nord/e perdona al freddo/che ti pianta/chiodi/nella coscienza.

Appartamento
Scambio la testa/e la mano invisibile/di un poeta/per un appartamento di tre stanze/senza pareti/e vicini./Do in affitto/il candore di un bambino/per un pugno/di realtà genuina/nella regione toracica.

I gelsi
Riconosco gli amici/siedono intorno a una tavola rotonda/e parlano di vetro/e della granitica esplosione della ragione/che ha fatto saltare in aria la loro gioventù./E dei gelsi,/la cui fragranza/non penetra/nei più reconditi/angolini delle loro narici.

PETER SEMOLIČ

La donna
Respira diversamente. Ti prende diversamente./Gambe differenti avvolge intorno ai tuoi fianchi./Occhi differenti, sconosciuti, ti scrutano intensamente./Un candore sempre diverso//risplende da sotto le sue ciglia./Durante l’amplesso e la perdizione di se stessa/ogni volta in un modo nuovo s’inturgidiscono i suoi capezzoli./Sono di sapore diverso. Hanno un altro profumo./E quando ricomincia a parlare, dopo un vasto mare di silenzio,//la sua voce ti sorprende, tanto è estranea./E’ lei a sconcertarti con la voce che senti per la prima volta./Perché non è la stessa donna che era ieri./Perché non è la stessa donna che sarà domani.

L’ape
Pensi che io abbia lasciato/nella tua pelle solo il pungiglione?/Ti sbagli./Vi ho lasciato/tutte le mie viscere,/tutto il mio intimo./Guarda/come mi sto spegnendo/tra i soffioni/nell’erba alta./Forse diventerò un fiore/dopo la mia morte./Un fiore grande e fragrante,/colmo di miele./Le api a mille/verranno a suggermi.

giovedì 10 maggio 2007

Dossier: "Una città che cambia"


Dalle parole di Ermenegildo Bugni, partigiano e membro del Comitato Provinciale dell'ANPI di Bologna, autore dell'autobiografia "Arno nella Resistenza", ho appreso (la sera della presentazione del suo libro organizzata dal Circolo ARCI Sputnik Tom in collaborazione con la sezione ANPI di Castel Maggiore, sera nella quale la brava Chiara Bedeschi ha letto alcuni passaggi del libro) com'era la Bologna della fine degli anni '30, subito dopo l'invasione dell'Etiopia da parte di Mussolini. Dalle parole dei miei genitori ho appreso com'era Bologna tra la fine degli anni '60 e gli anni '70, epoca in cui loro erano studenti all'università. La stessa Bologna che ho vissuto negli anni '80, durante la mia infanzia, ora, a distanza di vent'anni appare già molto diversa. Ho riflettuto quindi sui cambiamenti avvenuti a Bologna nell'arco degli ultimi 70 anni, e sono giunto alla conclusione che la città si dovrebbe liberare di quei cliché ormai stantii, perché legati ormai ad una Bologna che non è più. A questo proposito ho raccolto un po' di materiale prodotto da bolognesi (di adozione e non) per spiegare meglio la questione attraverso le loro parole.



Inizio con Francesco Guccini, il quale scrive:


“Ogni città si porta dietro uno sciagurato retaggio di canzoni encomiastiche, false come le cartoline con le tre T (che per Bologna sarebbero Torri, Tortellini e Tette). Amo Bologna, anche se adesso l’amore è meno entusiastico di un tempo, ma mi ha dato molto, e penso non vivrei in nessun’altra città (parlo di città, per paesi il discorso sarebbe diverso). Volevo fare una canzone che la raccontasse così come la vedo e la vivo, al di là dei cliché celebrativi. Un noto giornalista bolognese ha scritto che, nel corso di una trasmissione su Bologna, la mia canzone era forse la cosa più vera ed azzeccata. Devo dire che il complimento è stato una buona giustificazione per averla scritta”.


Segue il testo della canzone "Bologna" (la canzone fa parte dell’album del 1981 intitolato “Metropolis”; testo e commento dello stesso Guccini sono stati estrapolati dal libro “Stagioni”, raccolta di tutti i testi delle canzoni di Francesco Guccini, pubblicato nel 2000 dalla casa ed. Einaudi)



Bologna

Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po’ molli
Col seno sul piano padano ed il culo sui colli.
Bologna arrogante e papale, Bologna la rossa e fetale
Bologna la grassa e l’umana, già un poco Romagna e in odor
di Toscana.
Bologna per me provinciale Parigi minore
Mercati all’aperto, bistrots, della rive gauche l’odore
Con Sartre che pontificava, Baudelaire fra l’assenzio
cantava
ed io, modenese volgare, a sudarmi un amore, fosse pure
ancillare.
Però che bohème confortevole, giocata fra casa e osterie
Quando a ogni bicchiere rimbalzano le filosofie.
Oh, quanto eravamo poetici, ma senza pudore o paura
E i vecchi imbariaghi sembravano la letteratura.
Oh, quanto eravam tutti artistici, ma senza pudore
o vergogna
cullati fra i portici-cosce di mamma Bologna.
Bologna è una donna emiliana di zigomo forte
Bologna capace d’amore, capace di morte
Che sa quel che conta e che vale, che sa dov’è il sugo
del sale
che calcola il giusto la vita, e che sa stare in piedi
per quanto colpita.
Bologna è una ricca signora che fu contadina
Benessere, ville, gioielli e salami in vetrina
Che sa che l’odor di miseria da mandare giù è cosa seria
E vuole sentirsi sicura con quello che ha addosso,
perché sa la paura.
Lo sprechi il tuo odor di benessere però con lo strano
binomio
dei morti per sogni davanti al tuo Santo Petronio
e i tuoi bolognesi, se esistono, ci sono od ormai si son persi
confusi e legati a migliaia di mondi diversi.
Ma quante parole ti cantano, cullando i cliché della gente
Cantando canzoni che è come cantare di niente.
Bologna è una strana signora, volgare e matrona
Bologna bambina per bene, Bologna busona
Bologna ombelico di tutto, mi spingi a un singhiozzo
e ad un rutto
rimorso per quel che m’hai dato, che è quasi ricordo,

e in odor di passato.



Concludo riportando un passo dal libro “…benéssum ! – alla ricerca dello stupore perduto errando fra dialetto e gergo a Bologna e dintorni”, di Andrea Mingardi, 1999 Press Club Editore, cap. 4, “La bolognesità”:


[…] Siamo di Bologna, ordunque, e appare palese che ci piacciano la tavola e il sesso. Non contemporaneamente. A volte li mescoliamo. Non saremo né i primi né gli ultimi a farlo. Ma la fama delle nostre donne, immeritata, secondo “io”, quasi sempre “secondo”, ha varcato i confini, non solo della nostra regione, ma dell’Italia stessa.
Mi sono interessato, ahimé invano, di scoprire da dove provengano le leggende che fanno dell’universo femminile petroniano un territorio speciale dai connotati intrisi di sensualità.
La raffigurazione dell’amore a pagamento vede da sempre, come protagoniste, attrici con cadenze parlate familiari, che invitano il cliente ad entrare in paradisi perduti e proibiti.
Al di là del fatto che la federazione delle peripatetiche nostrane, ammesso che esista, dovrebbe far causa a tutto il mondo, in quanto, ragazze provenienti da ovunque, hanno distrutto in un attimo la storica esclusiva, non mi sembra, avendo girato il globo terracqueo, che le finlandesi scherzino, o che le siciliane non conoscano i sentieri del “piaciuere”.

Andando a un tanto al chilo, per induzione, così come si fa per le tasse, mi sono fatto un’idea che frantuma un mito immeritato e comunque non so neanche se tanto gradito.
Nel 1999 le donne e gli uomini, più o meno, sono uguali dappertutto.
I giovani di Enna sono vestiti come quelli di Zurigo e le percentuali di pregiudizio e di libertà sessuale non sottraggono ai praticanti, o osservanti, nulla che altri, ovunque e comunque, facciano.
Immodestamente ho avuto, a Rimini, un po’ di tempo fa, una splendida storia d’amore quindicinale con una ragazza lappone, capelli corvini, occhi viola: spervèrscia.
Non sto caricando, ve lo assicuro.
Posso dirlo liberamente in quanto il reato è già caduto in prescrizione.
Gli altiforni dell’Italsider erano dei “kof” al confronto con la predisposizione della suddetta a produrre sensualità. Un acrobata di metallo fuso con una libertà mentale e fisica che le nostre ragazze disinibite di allora avrebbero dovuto sfogliare come libro di testo. Un putiféri!
L’ultima riga in proposito, scusate.
Mi ha preso un attacco di “rimembering” : alta, pelle olivastra, e, povero me, una dea semovente che fermava il traffico. Da sparères!
Quando è partita, per un anno ho fatto l’eremita studiando le evoluzioni dei burdigoni dal pattume al giardino.
“Tornando a bomba” però, il mestiere più antico del mondo era praticato da professioniste che, in qualche modo, dovevano vendere la loro merce accaparrandosi i clienti, adescando e proponendosi.
Quindi mi immagino la storia di qualche anno fa, non solo nelle case chiuse, ma anche “on the road”.
C’era, di sicuro, meno offerta di oggi, mentre da parte degli acquirenti, vigeva un grande timore e un forte freno inibitorio moralistico.
Le tradizioni sessuali italiane facevano sì che alcune regioni avessero una maggiore densità di “ragazze perdute” rispetto ad altre.
Questo già disegnava la cartina dell’amore a pagamento. Uno di questi territori era sicuramente l’Emilia, più libera, anche culturalmente, di altre, dove le “navi scuola” svezzavano migliaia di maschietti impauriti, in un rito di iniziazione che non era, a volte, privo di tenerezze e che sarebbe stato determinante (lo dicono gli psicologi) per l’equilibrio sessuale dell’alunno.
Diciamocelo, nel dopoguerra è stata dura per tutti. Vent’anni dopo… uguale.
Si faceva un bel gioco a centro campo, ma a rete ci andavano in pochi. Tutti i pregiudizi erano presenti anche da noi.
Le ragazze facili, le ragazze madri, venivano etichettate e marchiate dal cattivo gusto degli sbandieratori maschi e la verginità è stata anche qui una “conditio” per un sacco di tempo.
Ma le prosti, diventate fortemente visibili soprattutto dopo la chiusura delle “case”, da noi lo erano anche prima, e questa vetrina era sicuramente un manifesto pubblicitario pregnante per gli innumerevoli “stranieri” che si trovavano, o per lavoro o per turismo, nella città dove certe barriere non esistevano.
Anche su questo argomento potremmo, se volessimo, aprire dei dibattiti per sviscerare il grado presunto di liberazione e di disinibizione sessuale, ma non lo faremo perché… non ci pagano per farlo, e poi a noi interessano elementi di analisi diversi. Perché è l’immagine in superficie che determina poi il mito di “sesso-Bologna”, così rozzo e dozzinale.
Un’annotazione curiosa, per me almeno, è che io, ragazzino, con le prime pulsioni, tornando a casa sui viali, le vedevo.
Erano brutte, grasse, vecchie. Per la mia età, sicuro.
Ma mi sembravano decrepite, con quei boa di finto struzzo e il rossetto al di là dei confini delle labbra; come se avessero bevuto, scomposte, da un barattolo di colore. Eppure quelli molto più grandi di me ne magnificavano le capacità, raccontandomi che qualcuna era anche in possesso di un vago tono materno.
Ti davano del tu affettuosamente ti mettevano a tuo agio. Almeno così mi dicevano. La prima volta, per noi timidi, è stato come andare sulla luna e alcuni hanno conservato un sentimento di gratitudine per aver superato, grazie a loro, una prova così ardua.
Una prova paventata nei discorsi da bar e a scuola; ed anche, sotto il profilo descrittivo, geometricamente confusa, atleticamente piuttosto complicata e misteriosa.
Con queste preoccupazioni di tirare rigori al novantesimo, alcuni facevano cilecca […]. Con pazienza la nave scuola minimizzava, diceva che succedeva a tutti, dava il tempo, ti riportava in quota e dopo un assist, andavi in goal.
Tutto molto diverso rispetto alla miriade di ragazze straniere con la pistola alla tempia che vengono “comperate”, usate e gettate come “kleenex” da una “civiltà” che non ha più paura di “non fargliela” ma che vuole, attraverso il sesso, esercitare una voglia di potere sadico e colonialista.
Il mercato tira e gli assassini, venditori e compratori, sguazzano.
Sono più belle quelle di oggi, ma non sono umane.
Sono “cyber” nelle mani del consumo. Ebbene si!
Nobilito, si fa per dire, “il mestiere più antico”, quando era antico.
Brutte, vecchie, sfatte, ciccione, ma forse in un caso su mille, utili e soprattutto umanamente consapevoli.
E allora, stabilito che, in materia, l’Emilia e Bologna erano sicuramente in “pole-position”, secondo voi, nell’approccio era più forte una bolognese o un umbra?
Una con la parlata e la capacità comunicativo-commerciale di una petroniana o una toscana? Non c’è gara.
Da lì nasce che ogni proposta di rimescolo prezzolato ha la voce gnagnosa, suadente, strascicata, godereccia di una bolognese.
Nel cinema, in TV, in teatro, e di conseguenza nella mente di chi scrive, questi erano i dialoghi preparati dagli autori:
“Mo vieni qua bel bambino che ti porto in paradiso”.
“Mo vieni bén dalla Ines che ti fa dei bei giochini!”.

“Giochini”non praticati dalla media delle coetanee. Se fosse stato per le “nostre donne”, i “viril pelosi questuanti”, potevano morire. Altro che paradiso sessuale! Siamo cresciuti, autodidatti, tra le nebbie di un’informazione casuale, con l’aggravante di sentirci continuamente dire dagli altri:
“Beati voi, le bolognesi che forza!”.
Le bolognesi ‘sti due! […]: ipocrite, perbeniste e sprovvedute come le altre. Vittime, certo, a volte non consapevoli, di un clima di puritanesimo fasullo. Altro che “Eden”, che “Nirvana”, un’adolescenza con il freno a mano tirato, esattamente uguale a quella di altre mille città, di altri mille ragazzi. Ho aspettato una vita a sfogarmi, e ora mi vendico, confutando quelle abilità supposte, tanto propagandate, della F.F.F. (fauna femminile felsinea), inesistenti ed esclusive. Le povere ragazze, purtroppo per noi bellissime (e in questo gli stampi erano ormai volti verso florilegi di splendide creature, così da gravare ancora di più, se possibile, sulla cifra di un nostro desiderio insopportabile), non sapevano dove mettere le mani. Sexi? Al pèr un uscio!
Chi ci ha provato con la porta di casa sa cosa vuol dire.
Vivevamo di fama e crediti usurpati, leggende create da chiacchiericci da trivio, ma non assolutamente riscontrabili in capacità né fisioterapiche né psicologiche. Noi e loro. Noi arrapati e forse anche loro, ma inchiodate da un’ignoranza assoluta in materia, alla ricerca di un qualcosa che solo dopo prove e riprove diventava una roba accettabile.
Ma proprio per questo buio culturale abbiamo vissuto un’era irripetibile, piena di stupori, di paure, di drammi, di gioie indescrivibili, di trasgressioni sul ciglio dei burroni.
Incontri rischiosi, sui cornicioni, nelle auto, al cinema, rubati e privi di qualsiasi cenno di sintassi.
Altro che “precauzioni”! L’unica cosa che indossavamo era un profondo senso di colpa. In attesa di punizioni universali, eravamo i clandestini del pianeta “amore”. Per orgoglio, mai abbiamo controbattuto il lucano che, guardandoci con invidia ci diceva:
“Voi sì che avete delle donne libere, chissà che cosa fate?”
“Niente, non facciamo niente, e le nostre donne sono delle mistocche deliziose e impacciate come noi!”.
Sfogarci così sarebbe stata una liberazione. Abbiamo tenuto su le carte e questa cosa si chiama “millantato credito” o “falso storico”. Del busì!
Ammesso che voi femmine abbiate cavalcato subdolamente e con un minimo di soddisfazione questa immagine usurpata, ricordatevi: lo dovete a noi maschietti. Siamo in credito! “Avanzàn quèl, ma fórsi l’è un póc tèrd. Csa dit tè?”.
Dal sesso al cibo il passo è breve.
Grandi esempi cinematografici.
Tony Richardson in “Tom Jones” è uno di quelli che storicamente hanno accorciato, se possibile, lo spazio che separa la gioia del far l’amore da quella della tavola. Mitica è la scena in cui lei e lui, mangiando con le mani, si mangiano anche con gli occhi.
Ci sono diverse scuole di pensiero sulla scansione dei tempi.
Alcuni sostengono che cibarsi dello sguardo sia già un preliminare di per se stesso.
Altri magnificano la qualità dell’appetito che ti viene dopo l’amore, stato di grazia mentale e fisico, per assaporare i cibi con la pace dei sensi..
“Amor mio, c’ho na sghissa!”:
“Na fam da bistia!”.
Fatto sta che siamo rinomati anche nell’arte culinaria. Sorge spontanea la domanda. Ma quando tutti magnificano la nostra cucina, lo fanno perché si apprezza di più ciò che non si ha o perché le differenze esistono davvero!?
Come si fa a dire: in Piemonte non si mangia bene, o in Toscana non ci sono idee all’altezza?!
Che in Sicilia è così così e che in Veneto, insomma?!
Al di là delle tradizioni e delle abitudini del palato, in Italia si sta alla grande ovunque, se si va nel posto giusto.

Ma noi abbiamo comunque la fama dei “goderecci”, di coloro che vivono a tavola, facendone un appuntamento imprescindibile nell’arco della giornata.Ci vedono tutti unti, sporchi di ragù, con il colesterolo in orbita, però magnificano le doti dei nostri piatti tradizionali come fossero statue, monumenti o palazzi antichi.
Le tagliatelle! (le hai fatte col mattarello o sono compere?, acquistate in negozio e fatte a macchina).
Silenzio ci sono i “tortellini”. Rispetto per i “passatelli”. Onore al “cotechino”. Omaggi ai “tortelloni”.
La beatitudine cromatica delle lasagne verdi, con linee morbide, che si piegano in crostine rosolate popolate da mandrie di ciccioli di ragù.
Fiumi di “balsamella” (i puristi la ripudiano) separano gli strati del godimento, tagliati volutamente male per dare quel senso di “fatto in casa”, da “artigiano del piacere”.
Il dispregiativo funziona, non solo nella denominazione delle portate, i “tortellacci” e i “maltagliati”, ma anche soprattutto nei nomi delle trattorie.
“Il Tavolaccio” e la “Chiesaccia” invitano il passante a fidarsi di una cucina fai da te e di prezzi “trattoriferi”.
Quando il ristorante ha il santo davanti al nome (San Domenico, Convento San Vincenzo) prepararsi al salasso.
Invece più il nome è sgangherato, “Al fienile”, “La trattoriazza di Gigi”, più ci sono garanzie, teoriche, di trovarsi di fronte a gestioni rustiche con pochi passaggi chimici ed economici tra la fetta di mortadella e il consumatore.
Questa proposta ruffiana nulla toglie all’effettiva qualità media del cibo e all’atmosfera che lo circonda. Premesso che ovunque si può trovare una cucina “sfiziosa”, è inconfutabile che, per esempio, in molte città italiane, si mangia in piedi o ci si impanina per questioni di tempo. La cosa qui non attecchisce.
Il rito della tavola e del parlarne è uno dei piaceri inalienabili del popolo petroniano. Tutto sembra ricondursi al discorso sulla qualità dei rapporti. Se siamo esploratori alla ricerca della purezza, essa si nasconde ovunque, tra arie rarefatte, profondità inesplorate o pappardelle al ragù.
“Volersi bene” è sinonimo di grande civiltà. Se guardiamo alla media popolare, alla quale poi tutti, anche per questioni di tempo, siamo costretti a fare riferimento, entrando alla ventura in un ristorante qualsiasi di camionisti o in una bettola colonica, ci troviamo ancora quei famosi paletti che sostengono la pur logora, stantia, retorica leggenda bolognese. Si mangia e si sta bene. As magna pulidén!
Tutto si configura in un rito naturale che si celebra nel piacere reciproco di dare e ricevere un piccolo applauso.

Bologna la rossa, al di là della sua bonomia, dello scetticismo ironico, dell’epicureismo esistenziale, sta vivendo forti contraddizioni.
Forse avrei dovuto dire Bologna la rosa.
Tutto si sta attenuando, assomigliandosi sempre di più. Qualcosa di volutamente moderato produce una poltiglia intellettuale.
I tempi del dopo guerra, del “sessantotto”, del “settantasette”, della caduta dei muri, appaiono lontani.E gli “uomini contro”, che provocavano energia culturale, sono diventati più anziani e “uomini forse”.
Quindi, anche le prerogative più viscerali, sbandierate come vessilli per decenni su un manifesto da sagra, hanno perso i loro eccessi e parte di quella fede “zuccona”, ma appassionata.
La gente mangia meno e vive di più.
Si fa meno l’amore, un po’ per paura (non è igienico leggere la musica a prima vista, ora ci vuole maggior attenzione) e un po’ per egoismo. Si fanno pochi bambini e non ci si rimette in discussione.
Quando hai fatto sessantuno, stai coi vinti.
Il rischio non abita qui.
La fede in qualcosa: le cooperative, il comunismo democratico, il Marxismo utopico, paiono un riccio addormentato senza le spine.
C’è chi va in chiesa perché non si sa mai, “S’ai è Dio, a stag da la pèrt di btón!”, dalla parte dei bottoni. Nel sicuro.
La città ha aperto le sue braccia agli stranieri e adesso le vorrebbe chiudere. I han del ghignòti!!?
La destra non è più fascista, la sinistra non è più comunista, il centro non è più democristiano, né socialista, né liberale, né repubblicano.
“Tra irpef, ilor, iciap, ici, cct, btp, an s’capéss pió un azidànt!”.
Il bolognese non è più bolognese come prima.
Ohi, intendiamoci, vedo più sazî che disperati, ma capisco la “boutade” provocatoria del Cardinale, perché il benessere e la bonaccia psicologica-politica non aiutano il muscolo dell’esploratore a rinforzarsi […]