domenica 22 aprile 2007

Il gergo bolognese al giorno d'oggi

Oggi voglio parlare di Loriano Macchiavelli perché di recente ha pubblicato insieme al buon Francesco Guccini l'ennesimo romanzo scritto a quattro mani, dal titolo "Tango e gli altri".
Loriano Macchiavelli ha apportato delle innovazioni con il suo modo di scrivere:
- un linguaggio vivo desunto dal parlato, capace però di caratterizzare un ambiente;
- un’immagine non convenzionale della sua città, Bologna;
- un modo disincantato e spesso polemico di vedere e di interpretare la società contemporanea.
Qui di seguito un estratto critico arricchito da alcune mie annotazioni di natura linguistica.
Concreta è la scrittura, la veste linguistica di quella “Bologna gergale” che risente di italiano regionale* e di dialetto. “Entrano anche le zanzare, nasano l’aria pesa che c’è nella stanza…”. “Raimondi ne ha abbastanza ed esce. Fa cenno a Sarti di seguirlo. Nel corridoio sta per mangiargli la faccia…”. “Ma Sarti ha un nervoso tale che se morde un cane l’ammazza!”. “E’ un bel po’ di tempo che pensa di andarla a trovare per finire il discorso di quella sera. Poi ci ha messo su piede…” (ha indugiato, ha rimandato e infine non ha fatto nulla). E può capitare che le parole più colorite e interdette, fonte di non poche incomprensioni fra il neogiallista e i suoi primi editori, sembrino talora sconfinare nel turpiloquio e siano invece calchi di espressioni idiomatiche: “Antonio Sarti, sergente, esce dal Maggiore che gli ride anche il sedere…” (gongola: iperbole del dialetto bolognese e romagnolo).

(Loris Rambelli, Introduzione a REPLAY PER SARTI ANTONIO, Il Giallo Mondadori, 1996)

*A proposito di italiano e della sua situazione:
La situazione italiana è abbastanza particolare perché almeno fino a qualche decennio fa i dialetti erano regolarmente utilizzati in famiglia. Si è venuta ad un certo punto a creare una situazione di coesistenza tra dialetto e lingua italiana, in cui le due lingue venivano utilizzate in contesti comunicativi complementari (non si parla in questo caso di “bilinguismo” perché le due lingue non erano sullo stesso piano, bensì di diglossia, i parlanti utilizzavano due codici linguistici in maniera complementare e uno dei due codici aveva ed ha uno statuto socio-culturale più elevato rispetto all’altro. Bilinguismo al contrario vuol dire che due lingue possono essere scambiate a seconda della volontà dei parlanti).
Sulla base di queste variazioni possiamo distinguere diversi italiani:

1) un italiano colloquiale e/o gergale;
2) diversi italiani regionali;
3) il neostandard;
4) un italiano letterario, burocratico, formale.

Il neostandard è una lingua sovraregionale (anche se poi risente delle diverse provenienze dei parlanti) che dal punto di vista morfologico accoglie, accetta regole, ad esempio di grammatica, che nell’italiano formale non sono ancora accettate e dal punto di vista fonetico si rifà allo scritto e non distingue il grado di apertura delle vocali “e” ed “o”.
La situazione dell’italiano è complessa perché le differenze tra i parlanti del nord, del centro e del sud sono ancora notevoli.


L’italiano settentrionale

- Allungamento delle vocali toniche;
- Cinque vocali e non sette (non c’è distinzione tra chiuse e aperte, non c’è opposizione tra coppie minime, basso rendimento funzionale);
- La sibilante /s/, es. “casa”;
- La “z” che viene resa quasi fricativa;

L’italiano centro-meridionale

- Riconosce un sistema a sette vocali
- Assimilazione dei nessi ND > NN e MB > MM
- Raddoppiamento consonantico di “d” e “g” in posizione intervocalica
- Le varietà meridionali si caratterizzano per la metafonia, con la chiusura della vocale tonica (o > u, e > i), es.: indebolimento, in “sposo” e “spusa”, anche della vocale finale
- Costruzione di frasi particolari. Ad esempio, invece della forma stare + gerundio, come “stare facendo”, si può incontrare “stare a fare”
- Impiego del complemento di termine dove di norma non è previsto, es.: “Sto a guardare a Carlo”

L’italiano parlato

- Semplificazione temporale. A livello verbale, utilizzo sempre più del presente anche per il futuro, il quale viene impiegato più che altro per comunicare un’ipotesi
- Caduta delle vocali finali dovuta alla velocità
- Caduta di sillabe iniziali, es.: ‘giorno < buongiorno
- Utilizzo del passato prossimo al posto del passato remoto (ormai anche nell’italiano meridionale)
- Quasi scomparsa del congiuntivo e in qualche caso sostituzione del condizionale con una forma di indicativo imperfetto. Alla fine il modo che continua a funzionare meglio è l’indicativo
- Il parlato risente molto anche delle terminologie dei mass-media, con un utilizzo sempre più evidente di prestiti.

***

In uno dei capitoli di uno dei tanti romanzi gialli scritti da Loriano Macchiavelli ambientati a Bologna, la scena si svolge nell’antico borgo del Pratello: l’ispettore Sarti Antonio, il protagonista, sta interrogando un ladro che si esprime in un gergo assai particolare, il gergo della malavita che fu di questa particolare zona cittadina. E’ un gergo che, ascrivendo la sua nascita in un periodo compreso tra gli anni ’40 e ’50 del ‘900 (quindi il Secondo Dopoguerra), è stato in grado di catapultare molte delle sue parole direttamente nel gergo parlato dalle giovani generazioni della Bologna di questi anni, creando una sorta di linea di continuità.
Concludo con un passo di Loriano Macchiavelli tratto dal suo "Coscienza Sporca" giallo che ho amato moltissimo. Questo passo che riporto mi piace perché dona, da parte di un bolognese, una visione obiettiva e spassionata della città, al di fuori dei suoi cliché ormai stantii e non più al passo con i tempi.
[…] la città [Bologna] bolle, è piena di contraddizioni, non si è mai guardata allo specchio, convinta per anni di essere privilegiata.
Naturalmente c’è chi specula: giornalisti e politici. Niente da eccepire, è il loro mestiere. Ma quando si vede un onorevole, uno di quelli che hanno fatto la passata politica nazionale, che si lega dinanzi a palazzo comunale con un cartello al collo nel quale si legge: “Addio Bologna, isola felice”, viene da ridere.
In quanti ci dovremmo incatenare dinanzi al palazzo comunale di tutte le città con il cartello: “Italia, dove sei finita?”. […]
E perché la finzione sia più reale, i bottegai continuano a vendere prosciutto e mortadella e a fare soldi, i magazzini di abbigliamento aumentano i prezzi e un paio di scarpe costa uno stipendio; i ristoranti sono fra i più cari d’Italia e prendere un taxi è come comperare l’auto che ti trasporta.
Si compra di tutto e ci si riempie lo stomaco.
Un modo per rimbambire che mette in pace le coscienze.
Le discoteche sono piene di giovani che non hanno bisogno di rimbambire perché ci sono nati. […]
Non c’è più la voglia di dire “buongiorno”. O di salutare chi si conosce e si incontra per strada. Si cambia direzione e si evitano noie.
Bologna è una strana città che, se ci guardi bene dentro, ti rendi conto che t’inganna. Ti illude di proteggerti sotto i suoi portici, come nel grembo di tua madre, e non ti permette di guardare dietro le quinte. Dove, appunto, accadono le cose più importanti.
Solo in certe occasioni Bologna è costretta a mostrare il volto segreto. Accade quando c’è da salvare l’immagine della facciata […] In queste occasioni escono tutti alla luce, si mostrano per tranquillizzare se stessi e gli altri, come per dire: “Vedete, io sono qui, io non c’entro”. […]
Ci si dimentica di colpo che, quanto a cattolicesimo bigotto, questa città non è seconda a nessuno. Secoli di dominazione pontificia avranno lasciato un segno, no? Falsa cordialità, ipocrita gentilezza mascherata dalla cantilena del dialetto e dall’affettato arrotondamento di certe parole. O dalla secchezza di altre che vengono pronunciate solo quando ci si dimentica di essere cortesi. Insomma, un parlare da preti.
D’altra parte, non è un caso che tutto, qui, si svolga come in una funzione religiosa. O si svolgeva, ché l’immigrazione ha un poco mitigato i misteri gaudiosi della città.
Esattamente come nelle funzioni religiose, c’è sempre qualcosa di misterico nei fatti che riguardano Bologna; qualcosa di non detto, di nascosto dietro l’altare. Se ci fate caso l’intera città è costruita come un altare. O un palcoscenico, che poi è la stessa cosa. Le quinte nascondono alla vista dello spettatore ciò che non s’ha da vedere. Cioè la commedia vera, quella che conta. E così, stupendi parchi si nascondono dietro facciate di antichi palazzi; botteghe piene di cose straordinarie e preziose si confondono nella penombra dei portici, visibili, ma con discrezione.
In ogni parte del mondo, è il verde che protegge le case; qui no, qui è la casa che nasconde il verde, con gelosia. Altrove, i negozi pagano per mettersi in mostra e le facciate dei palazzi si espongono allo sguardo con ostentazione. A Bologna, se volete ammirare la splendida facciata di un palazzo, dovete uscire dal portico, mettervi in mezzo alla strada e finire sotto le ruote di un autobus.
La città è concepita e costruita in modo da costringere lo sguardo ad altezza d’uomo, per obbligare a “vedere” solo ciò che è permesso: una lunga, interminabile sfilata di portici con i suoi pilastri o colonne; una teoria infinita di chiaroscuri che escono da antichi androni.
Niente a destra e niente a sinistra. Solo dinanzi.
Una città di mutua assistenza che dorme (o sogna) e che si scuote quando entrano in ballo interessi economici e politici. […]

1 commento:

Unknown ha detto...

Ciao, occhio che una cosa è (era) il gergo della malavita bolognese, una cosa è l'attuale modo di parlare a Bologna, che Alberto Menarini chiamava "italo-bolognese" e che, pur avendo desunto molti termini dal furbesco, in buona sostanza è italiano in bocca bolognese, e quindi per prima cosa è italiano con termini bolognesi italianizzati (inclusi quelli gergali). Ad es., rusco, bagaglio, sbanderno o donnella non sono gergo della malavita, ma termini correnti nell'italiano di Bologna. Ciao, Daniele