giovedì 29 novembre 2007


Il Darjeeling è una regione indiana dal clima mite, ai piedi dell'Himalaya, famosa in tutto il mondo per le sue piantagioni di tè, un tè così speciale e delizioso che alcuni lo chiamano "lo champagne dei tè".
Il Darjeeling, tra l'altro, è il mio tè preferito, per quel suo gusto forte e marcato, ma quando ieri ho fatto questa scoperta, subito dopo ho preso tra le mani la confezione da 25 bustine acquistata da uno scaffale del supermercato e mi sono sentito un po' in colpa. Ho rinunciato a farmi il tè. Ho letto che i lavoratori della ditta Valley tea, al confine tra Nepal e Bhutan, riempiono quotidianamente le ceste di bambù con le preziose foglie, ma che per questo vengono pagati solo 1,40 dollari al giorno.
Subito ho pensato allo sfruttamento operato dalle compagnie di tè occidentali e mi sono messo a riconsiderare i prodotti del commercio equo e solidale.
In fin dei conti, con i termini "equo e solidale", si intende un commercio nel quale l'obiettivo primario non è la massimizzazione del profitto, bensì la lotta allo sfruttamento e alla povertà legate a cause economiche o politiche o sociali. È, dunque, una forma di commercio internazionale nella quale si cerca di garantire ai produttori ed ai lavoratori dei paesi in via di sviluppo un trattamento economico e sociale equo e rispettoso, e si contrappone alle pratiche di commercio basate sullo sfruttamento che si ritiene spesso applicate dalle aziende multinazionali. Le ipotesi base per la politica del commercio equo e solidale sono idee quali: i prezzi vengono stabiliti da soggetti forti (multinazionali, catene commerciali) indipendentemente dai costi di produzione che sono a carico di soggetti deboli (contadini, artigiani, emarginati);
l'incertezza di sbocchi commerciali dei prodotti impedisce a contadini e artigiani di programmare seriamente il proprio futuro;
il ritardo dei pagamenti, ovvero il fatto che gli acquirenti paghino la merce molti mesi dopo la consegna e spesso anni dopo che sono stati sostenuti i costi necessari alla produzione (infrastrutture, semenza, nuovi impianti arborei, materie prime), favorisce l'indebitamento di soggetti economicamente deboli e un circolo vizioso che porta spesso all'usura;
i produttori non conoscono i mercati nei quali vengono venduti i loro prodotti e dunque non riescono ad adeguarsi e tanto meno a prevedere mutamenti nei consumi;
al fine di ridurre i costi, vengono impiegate tecniche di produzione che nel medio-lungo periodo si rivelano particolarmente negative per il produttore e/o la sua comunità;
al fine di aumentare i quantitativi prodotti, si fa ricorso al lavoro di fasce della popolazione che nei paesi ricchi viene particolarmente tutelata (bambini, donne incinte, ...) e si rinuncia alla formazione dei giovani;
persone con scarsa produttività (rispetto alla concorrenza) non hanno di fatto possibilità di sopravvivere sul mercato.
Il commercio equo-solidale interviene creando canali commerciali alternativi a quelli dominanti, al fine di offrire degli sbocchi commerciali a prezzi minimi a coloro che producono in condizioni ritenute più sostenibili.
I principali vincoli da osservare sono i seguenti: divieto del lavoro minorile, impiego di materie prime rinnovabili, spese per la formazione/scuola, cooperazione tra produttori, sostegno alla propria comunità, creazione, laddove possibile, di un mercato interno dei beni prodotti.
Gli acquirenti (
importatori diretti o centrali di importazione) dei paesi ricchi, si assumono impegni quali: prezzi minimi garantiti (determinati in accordo con gli stessi produttori), quantitativi minimi garantiti, contratti di lunga durata (pluriennali), consulenza rispetto ai prodotti e le tecniche di produzione, prefinanziamento.
Secondo i dati delle Università Cattolica e Bicocca di Milano, tra il 2004 e il 2005 la vendita di tè equo e solidale ha subito un aumento dell'11%.

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