I cambiamenti profondi dell’economia mondiale negli ultimi anni, l’incredibile sviluppo industriale della Cina, la crescita di nuove potenze commerciali come India e Brasile e il timore dei Paesi industrializzati di perdere posizioni di privilegio considerate acquisite, hanno convinto molti Stati, dopo il fallito vertice di Doha nel 2001, ad assumere una posizione più marcatamente protezionista. Questo nuovo contesto commerciale mondiale continua a lasciare ai margini proprio quei Paesi più deboli e meno sviluppati che avrebbero dovuto essere i maggiori beneficiari del round.
Il ciclo di negoziazioni di Doha avrebbe dovuto dare per la prima volta enfasi allo sviluppo dei Paesi più arretrati del mondo e si sarebbe dovuto occupare di questioni chiave quali la circolazione dei servizi, le sovvenzioni ai prodotti agricoli, gli aspetti commerciali della proprietà intellettuale e le agevolazioni degli scambi commerciali.
Gli Stati Uniti hanno difeso strenuamente le enormi sovvenzioni garantite agli agricoltori americani e in particolar modo ai produttori di cotone del Texas. In quattro anni (dal 1998 al 2002) la potente lobby del cotone ha ricevuto sovvenzioni per circa 15 miliardi di dollari. Questa imponente pioggia di denaro favorisce una parte minima dell’economia degli Stati Uniti, ma produce effetti estremamente negativi in altre aree del mondo (in particolare l’Africa sub-sahariana) in cui il cotone rappresenta una delle principali fonti di reddito.
I costi del mancato accordo sono ingenti. Questo fallimento rappresenta un serio colpo alla credibilità del sistema commerciale internazionale e della WTO. In ogni caso, quando parliamo del Doha Round, parliamo di proposte di liberalizzazioni spinte ed apertura dei mercati incontrollata. E' stato l'accordo agricolo che ha scatenato tutto. E' la presunzione di poter gestire i destini della globalizzazione economica e commerciale riunendo i pochi che contano, magari coinvolgendo anche qualche economia emergente, e facendoli decidere alle spalle dei molti non invitati.
Lo scenario internazionale è cambiato, anche se Unione Europea e Stati Uniti sembra non se ne rendano conto, e le cosiddette economie emergenti si dimostrano portatrici di interessi, capaci di pressione politica e intenzionate a far valere il loro peso economico.
La WTO ha segnato il passo, facendo chiudere ancor prima che aprisse i battenti il Consiglio Generale: inadeguatezza nel capire i cambiamenti reali in atto, e di comprendere l'insostenibilità di un cammino di liberalizzazioni a tappe forzate, in un contesto plurilaterale, dove pochi paesi membri si ritrovano per decidere alle spalle dei rimanenti 140 paesi.
Lo stesso Commissario per il Commercio dell'Unione Europea Peter Mandelson, intervistato al termine del World Economic Forum di Davos tenutosi a gennaio, ha affermato che c'è l'assoluta necessità di trovare nel brevissimo termine un nuovo accordo commerciale mondiale, proprio perché il sistema economico mondiale si sta evolvendo ad un ritmo elevato, e il WTO e la macchina del Doha Round non sono in grado di stare al passo.
Ma facciamo un passo indietro ed iniziamo a parlare dell’ultima edizione del World Economic Forum, che si tiene ogni anno a Davos, in Svizzera. Una trentina di ministri del Commercio, inclusa la statunitense Susan Schwab, oltre al commissario europeo, Peter Mandelson, quest’anno si sono ritrovati a gennaio sulle montagne innevate della Svizzera, in uno scenario che – pur non avendo la stessa atmosfera grottesca – ricordava vagamente la tipica ambientazione di un romanzo dello scrittore svizzero-tedesco Friedrich Dürrenmatt. Tra un brindisi con champagne, qualche chiacchieratina sui comodi canapé d’albergo e una o due brevi sciatine, hanno trovato anche il tempo di riunirsi per discutere della “Equazione dello spostamento dei poteri”.
In un clima in cui appare sempre più evanescente e contenuta la presenza americana e gli aspetti demografici si presentano come il destino del pianeta, appare chiaro che con la crescita costante della popolazione asiatica ed africana, ed una stagnazione delle nascite nella vecchia Europa e in Giappone, si potrebbero verificare degli ampi (ed ormai non più tanto imprevedibili) spostamenti di potere politico-economico.
L’India quest’anno è stata presente con quella sicurezza di sé che nasce dal fatto di sapere che il suo mercato nazionale sta continuando a crescere.
Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha parlato (finalmente) della fine della visione “Eurocentrica” del mondo, anche se il resto dei convenuti tutt’ora ignora i possibili modi con cui l’influenza del Vecchio Continente possa iniziare a restringersi negli anni a venire.
Tony Blair, nella sua ultima apparizione a Davos come capo di un governo, ha affermato che “il mondo è come se si ritrovasse oggigiorno in un clichè di perpetua conversazione globale”. La realtà dei fatti è pertanto la seguente: nonostante le grandi sfide all’orizzonte, tutti quei delegati e quei premi Nobel per l’economia che vengono per assistere alle sedute, tutto si riduce alla fine ad una gran matassa di belle parole e ad espressioni di buone intenzioni e progetti che al di là della loro formulazione teorica non trovano un’applicazione concreta.
Timothy Garton Ash, storico e saggista britannico, ci invita a riflettere sulle sorti del capitalismo globale. Ovunque il capitalismo globale trionfa, mettendo spesso aspramente in discussione la democrazia e la libertà. Nonostante la supremazia in declino dell’Occidente, tutti continuano a praticare il capitalismo, non solo gli americani e gli europei, ma anche gli indiani, gli oligarchi russi, i ricchissimi emiri arabi, persino i comunisti cinesi.
Ma quali sono oggi le alternative ideologiche al capitalismo? Il “socialismo del ventunesimo secolo” del venezuelano Chavez è un fenomeno puramente locale, per giunta praticato in uno Stato ricco di petrolio. La maggior parte dei no global e degli attivisti verdi sa mettere bene in luce i fallimenti del capitalismo globale, ma non è ancora stata in grado di proporre delle valide alternative.
Ma la mancanza di una qualsiasi chiara alternativa ideologica non significa necessariamente che il capitalismo globale sia del tutto al sicuro per gli anni a venire. La storia recente degli ultimi cento anni ci insegna che esso non è sempre un sistema in grado di auto-correggersi automaticamente. I mercati globali sono sempre più instabili e più di una volta si sono resi necessari notevoli interventi correttivi politici, fiscali e legali. Quanto più grande il capitalismo diventa, tanto più pesantemente può subire un crollo.
Non dimentichiamo le ineguaglianze. Il capitalismo globale continua a premiare in maniera iniqua i suoi protagonisti. Ci si chiede quali saranno le ripercussioni a livello politico del fatto che in Paesi in cui la stragrande maggioranza della popolazione è infinitamente povera vi è un numero ristretto di persone infinitamente ricche.
Se un buon numero di persone della classe media iniziasse a percepire che ci sta rimettendo nel processo di globalizzazione che rende schifosamente ricca una manciata di stakeholder che pratica l’outsourcing dei posti di lavoro in paesi dove la manodopera è a costo bassissimo, allora sì che si potrebbe scatenare, secondo Garton Ash, una reazione violenta. In Germania, ad esempio, gli operai del settore automobilistico negli ultimi anni hanno accettato di lavorare di più e più flessibilmente, senza ottenere reali aumenti salariali, solo per prevenire lo spostamento dei posti di lavoro in Slovacchia e altrove. E questo ha creato grande risentimento dal momento che i profitti delle imprese e gli stipendi dei dirigenti sono aumentati in maniera esponenziale.
Questo pianeta porta con sé l’insolubile problema che non siamo in grado di sostentare sei miliardi e mezzo di persone e far sì che possano vivere come i consumatori della classe media del Nord ricco. Nel volgere di pochi decenni avremo esaurito i combustili fossili, e ci avremo messo duecento anni per consumare ciò che ci ha impiegato 400 milioni di anni per formarsi ed accumularsi, senza dimenticare che avremo irrimediabilmente e irreversibilmente alterato l’equilibrio climatico terrestre. “Sostenibilità” secondo Garton Ash, sembra allora ancora l’unica e vera sfida o alternativa al capitalismo globale. Il capitalismo, nella sua necessità di alimentarsi, si imbatte costantemente nel problema di reperire i consumatori per i beni e gli articoli che continuano ad essere prodotti in ingenti quantità. Concludo parlando della famigerata “creazione dei desideri”. Il capitalismo non solo mette a disposizione dei consumatori quello che vogliono, ma arriva addirittura a creare in loro dei desideri, ad inculcare in loro falsi bisogni. Ed è questa logica dei desideri che si espandono a dismisura a divenire sempre più insostenibile su scala globale. Garton Ash ci chiede se siamo davvero pronti a fare a meno del superfluo e ad accontentarci di meno affinché altri abbiano di più. A noi la scelta.
Il ciclo di negoziazioni di Doha avrebbe dovuto dare per la prima volta enfasi allo sviluppo dei Paesi più arretrati del mondo e si sarebbe dovuto occupare di questioni chiave quali la circolazione dei servizi, le sovvenzioni ai prodotti agricoli, gli aspetti commerciali della proprietà intellettuale e le agevolazioni degli scambi commerciali.
Gli Stati Uniti hanno difeso strenuamente le enormi sovvenzioni garantite agli agricoltori americani e in particolar modo ai produttori di cotone del Texas. In quattro anni (dal 1998 al 2002) la potente lobby del cotone ha ricevuto sovvenzioni per circa 15 miliardi di dollari. Questa imponente pioggia di denaro favorisce una parte minima dell’economia degli Stati Uniti, ma produce effetti estremamente negativi in altre aree del mondo (in particolare l’Africa sub-sahariana) in cui il cotone rappresenta una delle principali fonti di reddito.
I costi del mancato accordo sono ingenti. Questo fallimento rappresenta un serio colpo alla credibilità del sistema commerciale internazionale e della WTO. In ogni caso, quando parliamo del Doha Round, parliamo di proposte di liberalizzazioni spinte ed apertura dei mercati incontrollata. E' stato l'accordo agricolo che ha scatenato tutto. E' la presunzione di poter gestire i destini della globalizzazione economica e commerciale riunendo i pochi che contano, magari coinvolgendo anche qualche economia emergente, e facendoli decidere alle spalle dei molti non invitati.
Lo scenario internazionale è cambiato, anche se Unione Europea e Stati Uniti sembra non se ne rendano conto, e le cosiddette economie emergenti si dimostrano portatrici di interessi, capaci di pressione politica e intenzionate a far valere il loro peso economico.
La WTO ha segnato il passo, facendo chiudere ancor prima che aprisse i battenti il Consiglio Generale: inadeguatezza nel capire i cambiamenti reali in atto, e di comprendere l'insostenibilità di un cammino di liberalizzazioni a tappe forzate, in un contesto plurilaterale, dove pochi paesi membri si ritrovano per decidere alle spalle dei rimanenti 140 paesi.
Lo stesso Commissario per il Commercio dell'Unione Europea Peter Mandelson, intervistato al termine del World Economic Forum di Davos tenutosi a gennaio, ha affermato che c'è l'assoluta necessità di trovare nel brevissimo termine un nuovo accordo commerciale mondiale, proprio perché il sistema economico mondiale si sta evolvendo ad un ritmo elevato, e il WTO e la macchina del Doha Round non sono in grado di stare al passo.
Ma facciamo un passo indietro ed iniziamo a parlare dell’ultima edizione del World Economic Forum, che si tiene ogni anno a Davos, in Svizzera. Una trentina di ministri del Commercio, inclusa la statunitense Susan Schwab, oltre al commissario europeo, Peter Mandelson, quest’anno si sono ritrovati a gennaio sulle montagne innevate della Svizzera, in uno scenario che – pur non avendo la stessa atmosfera grottesca – ricordava vagamente la tipica ambientazione di un romanzo dello scrittore svizzero-tedesco Friedrich Dürrenmatt. Tra un brindisi con champagne, qualche chiacchieratina sui comodi canapé d’albergo e una o due brevi sciatine, hanno trovato anche il tempo di riunirsi per discutere della “Equazione dello spostamento dei poteri”.
In un clima in cui appare sempre più evanescente e contenuta la presenza americana e gli aspetti demografici si presentano come il destino del pianeta, appare chiaro che con la crescita costante della popolazione asiatica ed africana, ed una stagnazione delle nascite nella vecchia Europa e in Giappone, si potrebbero verificare degli ampi (ed ormai non più tanto imprevedibili) spostamenti di potere politico-economico.
L’India quest’anno è stata presente con quella sicurezza di sé che nasce dal fatto di sapere che il suo mercato nazionale sta continuando a crescere.
Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha parlato (finalmente) della fine della visione “Eurocentrica” del mondo, anche se il resto dei convenuti tutt’ora ignora i possibili modi con cui l’influenza del Vecchio Continente possa iniziare a restringersi negli anni a venire.
Tony Blair, nella sua ultima apparizione a Davos come capo di un governo, ha affermato che “il mondo è come se si ritrovasse oggigiorno in un clichè di perpetua conversazione globale”. La realtà dei fatti è pertanto la seguente: nonostante le grandi sfide all’orizzonte, tutti quei delegati e quei premi Nobel per l’economia che vengono per assistere alle sedute, tutto si riduce alla fine ad una gran matassa di belle parole e ad espressioni di buone intenzioni e progetti che al di là della loro formulazione teorica non trovano un’applicazione concreta.
Timothy Garton Ash, storico e saggista britannico, ci invita a riflettere sulle sorti del capitalismo globale. Ovunque il capitalismo globale trionfa, mettendo spesso aspramente in discussione la democrazia e la libertà. Nonostante la supremazia in declino dell’Occidente, tutti continuano a praticare il capitalismo, non solo gli americani e gli europei, ma anche gli indiani, gli oligarchi russi, i ricchissimi emiri arabi, persino i comunisti cinesi.
Ma quali sono oggi le alternative ideologiche al capitalismo? Il “socialismo del ventunesimo secolo” del venezuelano Chavez è un fenomeno puramente locale, per giunta praticato in uno Stato ricco di petrolio. La maggior parte dei no global e degli attivisti verdi sa mettere bene in luce i fallimenti del capitalismo globale, ma non è ancora stata in grado di proporre delle valide alternative.
Ma la mancanza di una qualsiasi chiara alternativa ideologica non significa necessariamente che il capitalismo globale sia del tutto al sicuro per gli anni a venire. La storia recente degli ultimi cento anni ci insegna che esso non è sempre un sistema in grado di auto-correggersi automaticamente. I mercati globali sono sempre più instabili e più di una volta si sono resi necessari notevoli interventi correttivi politici, fiscali e legali. Quanto più grande il capitalismo diventa, tanto più pesantemente può subire un crollo.
Non dimentichiamo le ineguaglianze. Il capitalismo globale continua a premiare in maniera iniqua i suoi protagonisti. Ci si chiede quali saranno le ripercussioni a livello politico del fatto che in Paesi in cui la stragrande maggioranza della popolazione è infinitamente povera vi è un numero ristretto di persone infinitamente ricche.
Se un buon numero di persone della classe media iniziasse a percepire che ci sta rimettendo nel processo di globalizzazione che rende schifosamente ricca una manciata di stakeholder che pratica l’outsourcing dei posti di lavoro in paesi dove la manodopera è a costo bassissimo, allora sì che si potrebbe scatenare, secondo Garton Ash, una reazione violenta. In Germania, ad esempio, gli operai del settore automobilistico negli ultimi anni hanno accettato di lavorare di più e più flessibilmente, senza ottenere reali aumenti salariali, solo per prevenire lo spostamento dei posti di lavoro in Slovacchia e altrove. E questo ha creato grande risentimento dal momento che i profitti delle imprese e gli stipendi dei dirigenti sono aumentati in maniera esponenziale.
Questo pianeta porta con sé l’insolubile problema che non siamo in grado di sostentare sei miliardi e mezzo di persone e far sì che possano vivere come i consumatori della classe media del Nord ricco. Nel volgere di pochi decenni avremo esaurito i combustili fossili, e ci avremo messo duecento anni per consumare ciò che ci ha impiegato 400 milioni di anni per formarsi ed accumularsi, senza dimenticare che avremo irrimediabilmente e irreversibilmente alterato l’equilibrio climatico terrestre. “Sostenibilità” secondo Garton Ash, sembra allora ancora l’unica e vera sfida o alternativa al capitalismo globale. Il capitalismo, nella sua necessità di alimentarsi, si imbatte costantemente nel problema di reperire i consumatori per i beni e gli articoli che continuano ad essere prodotti in ingenti quantità. Concludo parlando della famigerata “creazione dei desideri”. Il capitalismo non solo mette a disposizione dei consumatori quello che vogliono, ma arriva addirittura a creare in loro dei desideri, ad inculcare in loro falsi bisogni. Ed è questa logica dei desideri che si espandono a dismisura a divenire sempre più insostenibile su scala globale. Garton Ash ci chiede se siamo davvero pronti a fare a meno del superfluo e ad accontentarci di meno affinché altri abbiano di più. A noi la scelta.
17 marzo 2007
Nessun commento:
Posta un commento