sabato 31 marzo 2007

Grappoli di collera



Fa sempre bene riscoprire i capisaldi della letteratura, soprattutto quando ti permettono di intraprendere un percorso non solo letterario, ma anche musicale.
"Furore" di John Steinbeck è un romanzo summa: non è solo letteratura, ma è anche un compendio di economia e storia americana del periodo della Depressione, ma, soprattutto, è una forte denuncia sociale, una denuncia dell'America del venerdì nero del 1929 dopo il quale il Paese iniziò a mostrare le sue mille contraddizioni, diviso tra enormi ricchezze e grande miseria.
Attraverso la famiglia Joad che si sposta lungo l'Highway 66 verso la California, in cerca della Terra Promessa, l'autore ci dipinge una metafora della condizione umana: la vita umana viene vista come un lungo viaggio intrapreso lungo una strada impervia. In questo libro si contrappongono le immagini della ricchezza, raffigurata dalle grandi e luccicanti automobili che sfrecciano vicino ai "rottami con le ruote" dei poveri Joad, e la povertà, le illusioni e disilussioni.
Questo romanzo è un'occasione per riflettere sui nostri tempi ancora troppo spesso caratterizzati dal disagio sociale, da condizioni di lavoro inumane, da diritti calpestati e ridotti a mere enunciazioni. Come non vedere nella famiglia Joad e in tutti gli altri disperati del romanzo i nuovi poveri, i nuovi disperati, anche loro in cerca, ieri come oggi, di un posto dove fermarsi e sostare, di un fuoco su cui scaldarsi, di una terrà promessa, di un lavoro sicuro?
In "Furore" troviamo la storia di una famiglia di contadini dell' Oklahoma, sfrattati dalle loro terre dalla siccità che distrugge i loro raccolti e dalla trattrici che sostituiscono il lavoro di venticinque uomini. E' in questo contesto che, per la seconda volta nella storia americana, i protagonisti intraprendono un lungo (ed alla fine illusorio) viaggio verso il West, che era considerato ancora terra dei sogni e dei desideri.
Un romanzo che descrive le vicende della classe lavoratrice e i problemi sociali dal punto di vista del lavoratore.
Questo romanzo ispirò il mitico folksinger americano Woodie Guthrie per comporre la sua "The Ballad Of Tom Joad". Vi invito a reperirla e ad ascoltarla, come vi invito ad ascoltare l'album di Bruce Springsteen "The Ghost Of Tom Joad", del 1995 (dal nome del protagonista del romanzo).
Qui di seguito il testo della canzone:

Men walkin' 'long the railroad tracks
Goin' someplace there's no goin' back
Highway patrol choppers comin'up over the ridge

Hot soup on a campfire under the bridge
Shelter line stretchin' 'round the corner
Welcome to the new world order
Families sleepin' in their cars in the Southwest
No home no job no peace no rest

The highway is alive tonight

But nobody's kiddin' nobody about where it goes
I'm sittin' down here in the campfire light
Searchin' for the ghost of Tom Joad

He pulls a prayer book out of his sleeping bag
Preacher lights up a butt and takes a drag
Waitin' for when the last shall be first and the first shall be last
In a cardboard box 'neath the underpass
Got a one-way ticket to the promised land
You got a hole in your belly and gun in your hand
Sleeping on a pillow of solid rock
Bathin'in the city aqueduct

The highway is alive tonight

Where it's headed everybody knows
I'm sittin' down here in the campfire light
Waitin'on the ghost of Tom Joad

Now Tom said: "Mom, wherever there's a cop
beatin' a guy
Wherever a hungry newborn baby cries
Where there's a fight 'gainst the blood and hatred
in the air
Look for me Mom I'll be there
Wherever there's somebody fightin' for a place to stand
Or decent job or a helpin' hand
wherever in their eyes Mom you'll see me."

Well the highway is alive tonight

But nobody's kiddin' nobody about where it goes
I'm sittin' down here in the campfire light
With the ghost of old Tom Joad

Parlando di "Furore", sempre tenendo d'occhio la produzione letteraria e musicale che parla delle condizioni dei lavoratori nel XIX e XX secolo, mi viene in mente anche la figura leggendaria di John Henry.
John Henry è un eroe mitico afroamericano che è stato il soggetto di tantissime canzoni, storie, racconti, romanzi ed opere teatrali.
John Henry era grande, grosso e forte. Lavorava come spaccapietre nei cantieri che, nell'Ottocento, stavano realizzando la linea ferroviaria per l'Ovest, in un periodo in cui le macchine stavano iniziando a soppiantare il lavoro non solo di braccia umane, ma anche di animali. La storia di John Henry narra che un giorno il proprietario del cantiere acquistò una trivella a vapore e per questo molti lavoratori di colore nel cantiere persero il loro posto di lavoro, soppiantati dalla macchina. Nella speranza di salvare il suo posto e quello dei colleghi, John Henry decide di sfidare la macchina. La realtà a questo punto si confonde con il mito, la leggenda e la fantasia. Le cronache narrano che John Henry alla fine riuscì a battere la macchina, ma morì d'infarto per lo sfinimento.
Il bello di questo personaggio è che, pur essendo di colore, è diventato un archetipo non solo per le culture musicali nera (con il blues) e bianca (con il folk, anche se una volta B.B. King disse che il folk è il blues dei bianchi - Rif. Elena Clementelli e Walter Mauro, "Blues, Spirituals e Folk Songs", Newton Poesia), ma per tutta la classe lavoratrice americana in un periodo di emarginazione e di cambiamenti. La storia di Henry viene vista come un archetipo della futilità della lotta contro il progresso tecnologico del XIX secolo che stava soppiantando il lavoro fisico tradizionale, oltre che come una denuncia delle compagnie interessate solo all'efficienza e alla produttività e per questo, non interessandosi del benessere dei propri lavoratori, decidono di mettere ai margini spesso proprio quelli più in gamba. Infatti John Henry, pur mostrandosi più bravo della macchina, alla fine muore e da essa viene rimpiazzato.
Inutile snocciolare la lista di musicisti blues e folk (oltre che di bluegrass) che, nel corso del tempo, hanno riarrangiato e reinterpretato la canzone tradizionale John Henry: Leadbelly, Sonny Terry & Brownie McGhee, Mississippi John Hurt, Woody Guthrie, Pete Seeger, Big Bill Broonzy, Odetta, Johnny Cash, Mississippi Fred McDowell e Dave Van Ronk.

Chissà perché ora che abbiamo parlato di ferrovie, spaccapietre e trivelle a vapore mi viene in mente "La Locomotiva" di Guccini?

Link al testo della canzone: http://www.ricky-web.it/testo-canzone.asp?titolo=La+Locomotiva

Questa canzone, con l'immagine della locomotiva "come una cosa viva lanciata a bomba contro l'ingiustizia", si richiama a un fatto realmente accaduto: protagonista il fuochista anarchico Pietro Rigosi, che si impadronì di una locomotiva e la mandò a schiantarsi contro una vettura in sosta nella stazione di Bologna. Miracolosamente si salvò, ma non svelò mai il mistero di quella folle corsa.
Evidentemente l'urto fortissimo lo fece schizzare via prima che i due veicoli si incastrassero l'uno nell'altro. Gli venne amputata una gamba, il viso rimase deformato dalle cicatrici, dovette sopportare una lunga degenza all'ospedale, ma dopo circa due mesi fece ritorno a casa. Inutilmente i giornalisti e i curiosi che gli facevano visita tentarono di chiedergli i motivi che lo avevano spinto ad un gesto tanto clamoroso. A nessuno venne risposto: il Rigosi si mantiene abbastanza tranquillo, parla con chi va a fargli visita, ma si astiene sempre ad accennare alle cause e al movente del suo atto, cambiando discorso o non rispondendo ogni volta che gli si richiede per quale ragione lanciò la sua macchina a tutto vapore da Poggio Renatico (in provincia di Ferrara) a Bologna e perché cercasse di morire.
Non era un ferroviere modello. Non tanto perché veniva spesso punito. Per i ferrovieri dell'esercizio allora ad ogni minimo errore corrispondeva una sanzione economica. Nel caso di Rigosi Pietro si tratta però di mancanze di omissione, negligenza, o diverbi con colleghi e superiori. Tutti chiari segni di affaticamento e insofferenza all'ambiente.
C'è una vasta letteratura sulle pesanti condizioni di lavoro dei ferrovieri, in particolare dei macchinisti, alla fine dell'800. Turni ininterrotti fino a trenta e anche quaranta ore consecutive, esposizione alle intemperie su macchine non di rado senza alcun riparo o con ripari che risultavano del tutto insufficienti, disciplina di tipo prussiano, tutto questo aggiunto ad un mestiere già duro: ricordiamo che una corsa da Venezia a Bologna significava per il fuochista spalare quaranta quintali di carbone. Non stupisce quindi che la mortalità nella categoria fosse tanto alta che non più del 10% dei macchinisti arrivava alla pensione. Forse fu tutto questo a spingere il nostro alla corsa forsennata verso Bologna. Anche se non volle mai dirlo pubblicamente ci doveva essere un rancore profondo in Pietro Rigosi verso la Società delle Strade Ferrate.
E con questo chiudo il cerchio.

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