...sappiamo con maggior certezza dove stiamo andando.
Qualcosa di simile pronunciò il musicista afroamericano Corey Harris in qualità di protagonista del film-documentario di Martin Scorsese "Dal Mali al Mississippi", splendida pellicola che indaga, facendo un viaggio a ritroso, sulle origini e le radici musicali del blues.
Questa frase che ho appena citato mi serve per introdurre l'argomento che andrò a trattare poche righe più sotto.
Non so come, non so perché, ma oggi, appena rincasato dal lavoro, mi è venuto da pensare a Genova (ogni volta che la nomino la mia mente inevitabilmente rievoca ancora i tragici fatti del G8 e le scandalose conversazioni intercettate degli agenti di polizia del "mattatoio" Caserma Diaz) e alla Liguria, cosa assai strana in quanto non conosco quei posti perché non mi ci sono mai recato in visita per il momento.
Forse inconsciamente l'ho fatto perché sabato scorso, ad una festa di compleanno, ho ascoltato la conversazione di due dei convitati in cui lei, dolce e gentile fanciulla dai capelli rossi, rispondendo alle domande di un ragazzo curioso, stava raccontando delle sue vacanze estive al mare trascorse tra Diano Marina e Marina di Ravenna.
Fatto sta che per coincidenza apro un giornale che parla di cibo e cultura gastronomica (tra l'altro vi è anche un interessante articolo sul formaggio firmato da un delegato Slow Food) e becco un articolo in cui è protagonista Imperia. Nello specifico si parla di un gruppo intergenerazionale di persone riunitesi per parlare di cultura alimentare, tradizioni gastronomiche locali e per difendere un centro sociale dallo sgombero.
Per la precisione il fatto si svolge in un paesino della provincia dal nome San Bartolomeo al Mare. Giovani e meno giovani si riuniscono attorno ai fornelli da campo dai quali sale l'aroma delle verdure del Ponente Ligure. E' in corso una iniziativa che prevede due giorni di impegno e di festa per l'associazionismo, per il Ponente Ligure della sinistra sociale e del precariato, di gente decisa a contrastare, qui in questa zona di frontiera baluardo della destra, la lunga mano dei poteri forti, nonché a difendere un centro sociale minacciato di sgombero, uno dei pochi spazi pubblici e gratuiti a disposizione dei cittadini.
Così, tra i profumi di piatti tipici locali, la gente (tra cui anche gente venuta da fuori e soggetti politici locali), bevendo vino, incrocia le storie di varie generazioni, puntellate, accompagnate dalla preparazione di alcuni piatti tipici: rostelle, condiglione, musciamme, buridda...piatti poveri che oggi ricordano che 60 anni fa la gente faceva la fame.
C'è un piccolo libro intitolato A' me manea (a modo mio), sottotitolo "Le donne, la cucina, la quotidianità, le feste", con racconti e ricette di un gruppo di anziani che hanno costituito un gruppo di scrittura creativa tramite l'Università popolare dell'età Libera, tenuto da Franca Natta, nipote dello scomparso Alessandro Natta.
Si parla di pranzi e cene dei giorni di festa realizzati con poco, ma creativi e appetitosi, a base di bietole, carciofi, pesce povero come acciughe e sardine. Nei ricordi degli anziani scrittori il profumo di quei cibi riporta alla mente mestieri scomparsi. Questo percorso di cibo e memoria ricorda anche una particolare pietanziera di metallo a più strati che chiamavano bulacchino ed era l'oggetto che contraddistingueva il pranzo degli operai dei cantieri.
Sull'immagine del bulacchino la tavolata dei convenuti si anima e si finisce per parlare di una città che non è più reattiva, fatta di giovani che partono per andare a studiare nella vicina Genova o a Torino, e che non sono più combattivi. Si inizia a parlare della questione spinosa della legge Biagi, per via della quale la precarietà del lavoro è ormai diventata regola, e alimenta un sommerso di migranti e di giovani senza un progetto. Allo sgretolamento concreto dei diritti si affianca quello legislativo e l'autonomia del diritto del lavoro tende a scomparire: e al salariato classico sappiamo bene tutti che si affiancano molteplici figure atipiche.
Concludo, per restare in tema geografico, riportando i versi di una delle mie canzoni preferite, "Genova Per Noi", di Paolo Conte (1975).
I. Con quella faccia un po’così
quell’espressione un po’così
che abbiamo noi prima andare a Genova
che ben sicuri mai non siamo
che quel posto dove andiamo
che ben sicuri mai non siamo
non c’inghiotte e non torniamo più.
II. Eppur parenti siamo in po’
di quella gente che c’è lì
che in fondo in fondo è come noi selvatica
ma che paura che ci fa quel mare scuro
e non sta fermo mai.
Genova per noi
che stiamo in fondo alla campagna
e abbiamo il sole in piazza rare volte
e il resto è pioggia che ci bagna.
Genova, dicevo, è un’idea come un’altra
Ah… la la la la
III. Ma quella faccia un po’così
quell’espressione un po’così
che abbiamo noi mentre guardiamo Genova
ed ogni volta l’annusiamo
e circospetti ci muoviamo
un po’randagi ci sentiamo noi.
Macaia[1], scimmia di luce e di follia,
foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia.
E intanto nell’ombra dei loro armadi
tengono lini e vecchie lavande
lasciaci tornare ai nostri temporali
Genova ha i giorni tutti uguali.
In un’immobile campagna
con la pioggia che ci bagna
e i gamberoni rossi sono un sogno
e il sole è un lampo giallo al parabrise.
Con quella faccia un po’così
quell’espressione un po’così
che abbiamo noi che abbiamo visto Genova
… … … … … … … … … … … … …
[1] Bonaccia di scirocco (dialetto genovese).
La Lanterna
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